I FILM DEL NEOREALISMO:
spunti di riflessione
di LAURA TUSSI
Roma città aperta è con Paisà (1946) e Germania anno zero (1948) il primo frammento di una trilogia rosselliniana incentrata sulla guerra. Basata su un'intuizione assai semplice, che tende a restituire al cinema la purezza e l'elementarità che esso aveva smarrito nei lunghi anni di corruzione del fascismo e della guerra, questa pellicola fu realizzata nei primi mesi del 1945 a partire da un soggetto di stampo documentaristico incentrato sulla figura di don Morosini, un prete di borgata ucciso dai nazisti nel 1944. Cresciuto in fase di sceneggiatura fino a divenire un soggetto di dimensioni normali, tanto che l'episodio della fucilazione del prete, che costituiva il nucleo centrale del documentario originale, si risolve nel finale drammatico d'un racconto corale, questo film illustra la presa di coscienza collettiva della lotta resistenziale attraverso la definizione del suo orizzonte ideologico e umano. Sullo sfondo di un periodo storico ben definito (l'occupazione tedesca) Rossellini delinea il quadro di una narrazione in cui l'elevarsi della cronaca a Storia si realizza attraverso l'osservazione e la rappresentazione della vita quotidiana. L'affresco corale presentato, in cui i fatti si propongono per quel che sono senza fronzoli o abbellimenti, confonde e sovrappone la storia di ogni individuo con quella della città, assunta, esattamente come i vari personaggi, al ruolo di protagonista della vicenda. Come ebbe a dire lo stesso regista nel 1976, Roma città aperta è un film sull'ovvio, laddove con questa parola si deve intendere il coraggio di esibire la realtà cosi come essa si concede alla cinepresa, non tralasciando nessun particolare, nemmeno il più imbarazzante e scabroso. Una volta recuperata l’antica purezza di sguardo la macchina da presa neorealista non può più schermirsi dietro delle false ipocrisie, ma deve invece inchinarsi all'imprescindibile necessita di registrare tutti quei fatti che il mondo quotidianamente mette sotto gli occhi di ognuno. Di qui la tanto vituperata scelta di riprendere anche un bambino sul pitale; scelta non dovuta a motivazioni sensazionalistiche, ma piuttosto al fatto di voler “trasmettere il senso dell’ovvio, per portare l'essere umano il più possibile vicino alla realtà”. Come risulta da questa affermazione il cammino estetico rosselliniano risponde qui al bisogno di scovare l'eroismo nelle pieghe irrisolte del quotidiano, mostrando al contempo la rilevanza “storica" di episodi e personaggi, persino i più minuti, che la cinepresa si dispone a registrare. In questa prospettiva non e più la macchina da presa che sceglie la porzione di realtà da riprendere, ma e piuttosto la realtà nelle sue infinite e molteplici sfaccettature a scegliere e a imporsi allo sguardo con la sua straordinaria autoevidenza. Alla ricerca di un'autenticità piena e consapevole il regista gira "dal vero", facendo ricorso il meno possibile a scenografie appositamente studiate (tale tendenza diventerà radicale nel successivo ed estremo Paisà), imponendo un'aderenza completa degli attori ai "tipi" rappresentati. La recitazione stessa si azzera e si sfronda:
gli attori, infatti, più che recitare devono agire e comportarsi con grande naturalezza. Il montaggio, poi, e, come l1inquadratura, ruvido e alieno da ogni raffinatezza nell'intento di far piazza pulita di ogni velleità commerciale. Solo cosi togliendo al cinema quelle componenti che fino allora ne avevano assicurato il successo, esso può finalmente disporsi a cogliere la realtà nel suo farsi per poi riproporla al pubblico nel suo austero vigore. La scelta antispettacolare e cronachistica messa in campo da Rossellini e però filtrata, diversamente da quanto avverrà nel successivo Paisà, che si può a ragione considerare il film più riuscito e coerente della poetica rosselliniana, dall'impiego di un tessuto narrativo ancora tradizionale. Facile intravedere sotto la patina di realismo alcune figure di contorno legate al macchiettismo della commedia dialettale (es. il carabiniere), cosi come e facile scorgere alcune strizzate d'occhio al romanzo d'appendice (es. la figura di Marina con la sua dipendenza dalla droga e il salotto tedesco di gusto decadente), o al cinema classico, con i suoi canonici momenti di tensione in crescendo (es. le imprese dei ragazzini e le azioni dei partigiani). Tali cascami del passato sono pero assorbiti in una messa in scena scarna ed essenziale che rompe con le forme artificiali più trite, conferendo immediatezza e penetrazione alla tragica visione della realtà che il regista sottopone allo sguardo dello spettatore. Rossellini non ha un punto di vista privilegiato, ne un'interpretazione vincente dei fatti narrati, egli si limita all'esposizione di un insieme dei punti di vista ugualmente portatori di verità. Lo sguardo che getta sul mondo non e di stampo ideologico, ma morale e deriva da una concezione cristiana della realtà che gli impedisce di farsi ingabbiare nei rigidi schematismi del cinema programmatico di denuncia. I suoi personaggi riassumono una varietà di inclinazioni rispetto alla lotta di Liberazione: c'è ad esempio il prete (A.Fabrizi) che aiuta per spirito cristiano gli oppressi, c'è il partigiano comunista (M.Pagliero) che e mosso dagli ideali, c'è, infine, la popolana (A.Magnani) che scopre la rivolta in maniera istintiva e spontanea. Ciascun personaggio, anche quello più secondario, contribuisce a comporre un preciso affresco drammatico teso a mostrare come il popolo italiano rifiuti il fascismo e il nazismo, non tanto per scelta politica, quanto per una naturale scelta morale. Se vi è un messaggio precostituito in Roma città aperta il messaggio non può essere che questo: dopo anni di servilismo e oppressione, in cui le libertà erano state conculcate e la politica aveva avuto la meglio sulle componenti umane e morali della nazione, il popolo si è reso finalmente conto che fascismo e nazismo erano due cancrene insopportabili; da questa presa di coscienza e maturato uno spirito di ribellione che ha unito tutti, indipendentemente dalle ideologie e dalle differenti convinzioni politiche, sotto la comune bandiera della Resistenza. Tale visione delle cose, tuttavia, sottende un discorso esistenziale di matrice tragica che cela, sotto la scorza di un ecumenico anelito di fratellanza, un pessimismo di fondo e una disperazione che vanno ben al di là di una semplicistica interpretazione consolatoria della vita in chiave cristiana. Discorso differente merita il regista di Riso amaro (1949). G.DeSantis possedeva, infatti, un solido entroterra culturale e ideologico di stampo marxista che, sia pur filtrato attraverso scelte estetiche di tipo classicamente hollywoodiano, informava tutti i suoi film. Cresciuto come critico presso la rivista "Cinema" egli si fece promotore già nel periodo fascista, assieme a U.Barbaro, L.Chiarini ed altri, di una reazione di gusto realista ai canoni della cinematografia di regime. Questa esperienza, maturata dall'incontro con L.Visconti e dalla collaborazione a Ossessione, da una robusta frequentazione della letteratura americana più "populista" (Caldwell, Dos Passos, Steinbeck), dall'ammirazione per il musical americano e per il cinema del New Deal, nonché dalla successiva adesione alla lotta armata durante la Resistenza, modellò il carattere di un autore tutto teso a conciliare due aspetti solitamente incompatibili della creazione cinematografica: l'impegno politico e l’inclinazione spettacolare. Nell'apparente dicotomia di questa affermazione risiede in realtà l’afflato artistico più puro del miglior DeSantis. In lui l'ispirazione neorealista passa al vaglio di una vocazione epico-didattica tesa a ritrarre le vicende del singolo sullo sfondo di una partitura corale. D'altro canto e proprio l'impianto corale di certe scene (si pensi ad alcune inquadrature di Riso amaro che propongono l'insieme delle mondine al lavoro nelle risaie) a costituire il dato stilistico più rappresentativo di un modo di fare cinema giocato sulla dialettica tra il singolo, con la sua storia privata fatta di solitudine e dolore, e la massa popolare, con la sua spinta solidale all'unione. Nei suoi film DeSantis segue l'incontro - scontro tra queste due entità, mettendo in evidenza le difficoltà di inserimento dell'individuo nel gruppo. Più di qualsiasi altro regista della sua epoca egli e il cantore delle masse; un cantore che, pur sentendo l'influenza del cinema sovietico e del realismo socialista, tratteggia ciononostante una narrazione coerentemente vicina al cinema classico d'oltreoceano. Particolarmente attento al mondo rurale e allo scontro di classe, DeSantis non disdegna infatti, l’inserimento di annotazioni di tono morale e psicologico, e, non ultima, di una vena erotica, come ben messo in evidenza proprio in Riso amaro; film dominato dal linguaggio del corpo tanto a livello visivo, quanto a livello narrativo. L'assunto neorealista da cui DeSantis parte e quello, come egli ebbe a scrivere nel 1949, di “un'arte popolare, nel senso di avere scelto a protagonista delle sue vicende il popolo; il popolo con le sue speranze, le sue sofferenze, le sue gioie, le sue battaglie e - perchè no?- le sue contraddizioni”. L'accenno finale al concetto di contraddizione ben sintetizza l'impegno cinematografico posto alla radice della sua estetica: prendere degli oggetti narrativi popolari e rivestirli di strutture di fruibilità provenienti dalla tradizione, quali ad esempio il melo, il film d'azione, il cine e il foto romanzo. Si individua qui un'arte in cui le classi popolari svolgono al contempo la funzione di protagonista e di spettatore e che formalizza in chiave teatrale e mitica gli elementi provenienti dalla vita reale.
Riso amaro, secondo lavoro del nostro autore e suo maggiore successo nazionale e internazionale, ben sintetizza questa posizione. Il film narra, sullo sfondo corale della monda nelle risaie del vercellese, le vicende individuali di quattro personaggi i cui destini si intersecano i fino la collidere in maniera tragica. Non esente da moralismi, si veda a tale riguardo il finale, Riso amaro pone l'accento sulle trasformazioni indotte nella società dall'introduzione dei miti della cultura di massa. L'Italia rurale ritratta nella pellicola e, infatti, una nazione che vive “il trauma di una liberazione che non è solo abbattimento del regime fascista, ma anche -e soprattutto- liberazione del desiderio di accedere a quelle forme di sogno collettivo che in un’altra parte del mondo (negli Stati Uniti d'America, nazione del mito per eccellenza) sono esplosi mentre in Italia si recitava il monologo dell'autarchia”(S.Masi). Si considerino in tale ottica i brevi tratti con cui viene delineata la figura di Silvana (S.Mangano), che si muove a ritmo di boogiewoogie e viaggia con "Grand Hotel" e un grammofono. I sintomi del cambiamento sociale traspaiono anche dalla presenza all'inizio del film di un annunciatore radiofonico che mescola spettacolo e informazione, dati geografici e retorica, sovrapponendo alla realtà un ibrido discorso anticipatore della futura comunicazione di massa. Il messaggio che ne deriva marca il conflitto tra la realtà della cultura contadina da una parte e l'illusione dei nuovi miti e oltreoceano dall’altra ed è ben riassunto dall'introduzione di una serie di dettagli che rimandano a una precisa nozione di falsità (es. la collana ritenuta vera e che si rivela fasulla; i simulacri di esseri umani che sono trascinati dai soldati per le loro esercitazioni). Il finale moralistico, con il duello tra le due coppie di amanti all'interno della macelleria, chiude il cerchio della narrazione, manifestando il punto di vista del regista che pare condannare senza appello i falsi miti del nuovo ordine sociale in via di formazione. Riso amaro appartiene assieme a Il cammino della speranza (1950) di P.Germi a quella che abbiamo definito come la seconda e più edulcorata fase del Neorealismo. Una fase che mostra i segni della stanchezza artistica e dei mutati equilibri politici nel frattempo verificatisi nel paese. Gradualmente, ma inesorabilmente, l'Italia, col nuovo assetto politico imposto dalle elezioni del 1948 e il boom economico dovuto anche ai massicci investimenti percepiti dal governo tramite il piano Marshall per la ricostruzione, scopre un primo, sorprendente miracolo economico. Dal 1947 al 1952 la produzione industriale, infatti, aumenta di una volta e mezzo, mentre, con il varo della riforma agraria e la fondazione della Cassa per il Mezzogiorno nel 1950, consistenti investimenti piovono sull'agricoltura, che d’un tratto conosce una meccanizzazione senza precedenti. Con l'uscita dell'agricoltura dalla fase di sussistenza e il suo ingresso nella fase mercantile molti contadini abbandonano le campagne e, attirati dalle industrie, si riversano nei centri urbani dando origine a un nuovo flusso migratorio che ora, diversamente da quanto era avvenuto all'inizio del secolo, ha un andamento interno che va da sud a nord. Le periferie cittadine crescono a dismisura e la geografia nazionale subisce una trasformazione. Le donne entrano nel mondo del lavoro e tutto un insieme di tradizioni vengono abbandonate per adottare un nuovo stile di vita prettamente di stampo americano. Il cammino della speranza, cosi come per altri versi Riso amaro, denuncia la trasformazione sociale che ha luogo in Italia sull'onda lunga della riconquistata libertà. Se la prima fase del Neorealismo era più autentica e spontanea, marcata soprattutto dall'esperienza della Resistenza, la seconda fase è spettacolare e formalmente ricercata ed e contraddistinta dall'interesse per un paese che cerca di scrollarsi di dosso il passato nell'intento di guardare avanti. La politica di pacificazione nazionale voluta dal nuovo governo da anche al cinema i suoi frutti, cosicché le pellicole si fanno meno graffianti e radicali, riscoprendo venature narrative e figurative di marca hollywoodiana. Germi e tra i registi del periodo quello che forse meno di tutti possiede una cultura letteraria. Il suo modo di guardare la realtà è, infatti, soprattutto figlio del suo credo cinematografico americano che lo porta a delineare storie di solida struttura narrativa e ricche di particolari. Dal noir d’oltreoceano e dal western fordiano egli apprende le regole del racconto e della sintassi rispettosa delle leggi del montaggio e dei movimenti di macchina. Questa attenzione all'aspetto formale del film non è tanto un capriccio estetico, dovuto alla voglia di ribellarsi alla primitività dell'estetica del Neorealismo, da cui, sia detto per inciso, Germi si è dichiarato estraneo, quanto piuttosto una naturale necessità interiore legata a ragioni di ritmo narrativo. il suo cinema è "classico" nel senso delle scelte stilistiche impiegate nella messa in scena e nella strutturazione del racconto. Anche per questo egli non amava le approssimazioni formali e narrative del miglior Neorealismo, ma amava piuttosto le sceneggiature di ferro, la rigida direzione degli attori e un montaggio attento e preciso. Se in questo siamo lontano dall'estetica neorealista, gli siamo vicino, perlomeno in Il cammino della speranza e nel precedente In nome della legge (1948), per quanto concerne le scelte contenutisti che di natura cronachistica e di denuncia. Se con In nome della legge si è, come è stato da altri notato, nel campo del Neorealismo romanzesco, con Il cammino della speranza si entra invece nella dimensione del Neorealismo epico. Epico è, in effetti, in questo film, che originariamente avrebbe dovuto intitolarsi più brutalmente "Terroni", il viaggio che un gruppo di siciliani compie attraverso l'Italia della ricostruzione alla ricerca di una propria rinnovata dignità. Epica è la lotta da essi combattuta contro gli "elementi" ostili, rappresentati dagli ingaggiatori senza scrupoli, dalla polizia e, come nella sequenza tra i ghiacci, dalla stessa natura. Come nel precedente Paisà, nella pellicola di Germi si seguono le vicende umane ed esistenziali di alcuni personaggi, ma a differenza del film di Rossellini la risalita
dell'Italia da sud a nord non ha valenza di riscatto morale, quanto piuttosto tende a mettere in risalto le incomprensioni e l'incomunicabilità tra differenti luoghi di una nazione che si credeva riunita e che nella realtà si stava spezzando in due: da una parte un sud arretrato e più restio ai cambiamenti, dall’altra un nord già rinato. Il quadro che ne esce non è certo edificante e mostra un paese lacerato dai conflitti sociali, dalle lotte tra poveri disperati e tra questi e le forze dell'ordine (a questo riguardo e utile osservare che alcune scene che descrivevano la polizia in modo non molto indulgente furono censurate da una commissione presieduta da G.Andreotti). Due anni dopo Paisà il film di Germi ripercorre la stessa Italia e forse inaspettatamente, rispetto ai sogni di chi vedeva nella lotta di Liberazione un punto di partenza per la realizzazione di un sogno di autentica rinascita, ne scopre la disperazione e il dolore. La speranza che il titolo propone non risiede, in effetti, entro i confini nazionali, ma in Francia; cioè in una nazione "altra" che si configura come un giardino dell'Eden capace di esaudire i desideri di tutti. L'attenzione al sociale si stempera pero in Germi nell'insistito interesse per i singoli. Frequenti sono i primi piani che individuano con brevi tratti i vari soggetti, ponendo in tal modo in evidenza il rapporto che lega ogni essere umano al suo gruppo. Anche nelle scene di massa c’è sempre un primo piano che spezza il campo per dare respiro individuale alla messa in scena, quasi a sottolineare come siano i singoli a dare consistenza e personalità al gruppo e non viceversa. personaggi di Gemi, buoni o cattivi che siano, non conoscono l'impegno politico, ma paiono piuttosto essere mossi dall'istinto a sopravvivere. All'arma della parola politicizzata e carica di sensi reconditi essi oppongono un eloquente silenzio carico di disdegno. Un silenzio che di tanto in tanto si risolve nel canto, unica forma catartica in cui credere per liberarsi dal fardello opprimente della disperazione e del dolore.
Un’ultima breve annotazione riguarda il film di montaggio che Lino Miccichè, Lino Del Fra e Cecilia Mangini realizzano a partire da materiali conservati negli archivi. Il loro All’ armi siam fascisti si inquadra un più generale fenomeno di recupero del "mito" deJla Resistenza a cui si assiste agli inizi degli anni sessanta e che ha come tendenza quella di ritornare a guardare al passato con un occhio più critico e appassionato. Sull’onda di una nuova partecipazione popolare alla lotta di Liberazione i tre autori, con l'aiuto di F.Fortini in sede di commento storico, danno vita a una pellicola in cui l'analisi di un periodo storico abbastanza lungo (dall'inizio secolo alla caduta del fascismo) e vista in prospettiva marxista. La tesi di fondo e quella che alla base della nascita del fascismo ci fossero gli interessi del capitalismo agrario e industriale e che l'humus sul quale i Fasci di combattimento poterono prosperare aveva radici molto lontane. Condannato dalla censura dell'epoca, particolarmente attenta a stigmatizzare tematiche resistenziali e rievocazioni di figure legate al Ventennio, il film e' una lucida e imprescindibile riflessione cinematografica sui più importanti avvenimenti della storia nazionale di questo secolo.
LAURA TUSSI
IL CINEMA NEL VENTENNIO FASCISTA:
QUADRO STORICO.
di Laura Tussi
Secondo una felice definizione del regista austriaco Otto Preminger la storia del cinema si dividerebbe in due epoche ben distinte: prima e dopo Roma città aperta (1945). Malgrado affermazioni di questo tenore possano risultare troppo lapidarie e semplicistiche, in effetti, un discorso di questo tipo può essere applicato tranquillamente anche a film storicamente fondanti come Citizen Kane (1941) di O.Welles e About de souffle (1960) di J.L. Godard, e pur vero che esse riflettono una verità di fondo incontrovertibile. Il film che R. Rossellini licenzia al termine di un periodo di lavorazione caratterizzata da mille difficoltà e di quelli che marcano un'epoca. Dopo la proiezione del 24 settembre 1945 il cinema, soprattutto quello italiano e più in generale quello mondiale, non potrà più essere lo stesso. Scaturita in maniera ovvia e naturale dal proprio tempo, la pellicola del regista romano azzera letteralmente lo spazio-tempo cinematografico fino allora conosciuto e da origine a una nuova era in cui non sarà più possibile interpretare al medesimo modo il mondo esplorato dalla macchina da presa. Cambiamenti di simile portata non nascono per caso ma sono chiaramente il frutto di un ambiente sociale, politico e culturale ben determinato e di cui l'opera d'arte e' lo specchio e l'emblema.
Come ogni regime totalitario che si rispetti, il Fascismo pose grande attenzione al controllo della cultura e in particolar modo del cinema, considerato un ottimo mezzo di propaganda e un efficace medium per il controllo delle masse. Il motto "il cinema e l'arte più forte", che ben riassume l'interesse dimostrato da Mussolini per la settima arte, è parente prossimo di quello di Lenin secondo il quale "il cinema e, tra tutte le arti, la più importante". Al di là di quelle che possono essere le curiose fratellanze tra regimi ideologicamente contrapposti, preme qui osservare la comune comprensione della fondamentale rilevanza attribuita all'invenzione dei fratelli Lumiere nel nostro secolo. Per giungere ad influire sulla popola-zione era però necessario che in Italia, cosi, come era avvenuto in URSS all'indomani della Rivoluzione di Ottobre, il cinematografo si sviluppasse come si industria attraverso tutta una serie di enti appositamente creati. Per tale motivo durante il Ventennio nacquero rispettivamente il Centro Sperimentale di Cinematografia, il LUCE (L'Unione Cinematografica Educativa) e la Mostra del Cinema di Venezia. Con queste tre istituzioni, ancor oggi funzionanti, il regime tese a gestire politicamente e culturalmente il cinema nostrano, premurandosi da una parte della formazione delle nuove leve, attraverso il Centro Sperimentale, e dall'altra di pubblicizzare i propri prodotti, e quindi le proprie idee, per il tramite dei cinegiornali del Luce e di una Mostra principalmente intesa come vetrina dell'Italia fascista all'estero. Nell'intento, poi, di rinverdire i fasti della cinematografia italiana antecedente al primo conflitto, allorchè l’Italia faceva scuola a livello mondiale coi suoi film storici (es. Cabiria (1914) di O. Pastrone), e di contrastare al contempo, secondo la politica autarchica voluta da Mussolini, Io strapotere di Hollywood, nel 1937 furono creati gli stabilimenti di Cinecittà, vero fiore all'occhiello del regime. Luogo non solo di lavoro, ma anche di mondanità frequentato dai figli del Duce, dalle dive del momento e dai gerarchi con le loro amanti, a Cinecittà si girano 79 film nel 1939 e 85 pellicole nel 1940. Persino durante i primi anni di guerra, mentre cominciano già a scarseggiare il pane e i generi di prima necessita, Cinecittà non smette di inondare di film e di ottimismo la nazione: 89 pellicole nel 194 i, 119 nel 1942. Solo dopo il 25 luglio 1943 (arresto di Mussolini) le cose cambiano e le sorti degli stabilimenti voluti da Carlo Roncoroni si confondono con quelli di un paese già sull'orlo del baratro. in pratica negli anni che vanno dalla sua costituzione ai tragici eventi del 1943 Cinecittà rappresenta il più grande e importante centro di produ-zione cinematografica d'Europa. A prima vista i dati numerici possono apparire aridi, tuttavia se letti in relazione all1ideologia fascista che tendeva a perseguire a livello politico, industriale e culturale una "terza via” rispetto ai modelli capitalistico e sovietico allora dominanti, si può comprendere come il disegno alla base del controllo e della nascita dell'industria cinematografica italiana fosse preciso e unitario. Avere un'industria settoriale forte e autonoma che sapesse trasmettere le idee mussoliniane significava da un lato sviluppare e proteggere l'imprenditorialità nazionale e dunque la ricchezza e il lavoro, e dall'altro, non concedendo alle pellicole straniere il nulla osta a circolare, si finiva per espungere una differente visione delle cose e della realtà rispetto a quella voluta dal regime. Nel quadro di una politica economica e culturale autarchica il fascismo si premuro di reprimere nuove idee che potessero minare il suo potere, affermando la gloria storica ed estetica di un passato, romano e imperiale, ormai inesistente.
A livello estetico e tematico il cinema del Ventennio e' virile, eroico, rivoluzionario, secondo i canoni fascisti,e celebrativo.
Nati nel 1919 con intenti repubblicani, nazionalisti, anticlericali e proletari i Fasci di Combattimento smarriscono ben presto la loro carica rivoluzionaria. La rivoluzione fascista, infatti, pare essere tale solo di nome, ammantandosi nella realtà di miti e propositi celebrativi in funzione consolidatrice di privilegi preesistenti. In un'ottica di questo genere e chiaro che tutte le correnti culturali e di pensiero in qualche modo aliene al dettato fascista si trovassero a essere emarginate, se non addirittura perseguite. Gli artisti erano tollerati se affiancavano l'estetica fascista o se si disinteressavano della realtà, dominio solamente della politica e della mistica mussoliniana. La reazione tenuta dalla intellighenzia nazionale che in misura maggiore o minore non si riconosceva nel regime fu in parte quella di chiudersi in un aristocratico distacco, giustificando il proprio solipsismo centripeto con l'estetica crociana che assicurava all'arte una piena autonomia. Mentre la letteratura si ripiegava in se stessa, abiurando il romanzo e scoprendo la poetica della memoria e del diario, il cinema, non conoscendo altra forza espressiva che quella narrativa e non potendo enunciare altre idee se non quelle volute dal fascismo, si trovava di fronte a una duplice scelta, in entrambi i casi poco edificante:
a) indossare la camicia nera e con essa gli ideali di partito;
b) piegarsi alla commedia rosa e al sentimentalismo.
Non potendo rappresentare la realtà, ne esprimere idee forti e originali rispetto ai dettami imposti dall'alto, il cinema si rivolse cosi a due forme tradizionali dello spettacolo nostrano:
a) il teatro dialettale, da cui in parte scaturiscono i film di M.Camerini col loro mondo piccolo borghese e la loro poetica del sottovoce;
b) il melodramma, dal quale discende il filone magniloquente e celebrativo dei film pseudostorici di massa e in costume, il cui sommo interprete e C.Gallone col suo Scipione l'Africano (1937).
Camerini, autore del noto e acclamato. Gli uomini che mascalzoni (1932), porta sullo schermo un tipo di vita più dimesso e quotidiano, ricco di sogni, ambizioni e guai minori. Il suo e un cinema intimista e scanzonato che, fatto per non far troppo pensare, riesce comunque a stare vicino alla gente. Ben diverso è invece il cinema epico, eroico, moralistico e assolutamente prono alla propagandistica ministeriale che ha nel "colossal" di Gallone il suo esempio più caratterizzante. Accanto a queste due tendenze, si sviluppa poi il cosiddetto cinema dei "telefoni bianchi" (dal colore dei telefoni di cui si servivano nei loro film le dive di allora). Nato come puro "entertainment" per far concorrenza ai prodotti hollywoodiani messi al bando, questo cinema cercava di essere molto patinato, presentando sullo sfondo di un certo lusso di contorno, storie melense e ripetitive. A questi si affiancano, pero, nell'ultimo periodo, alcuni titoli di tono insolitamente nuovo e legati a due ten-denze divergenti: una di carattere colto e letterario che presentava una certa ricerca formale (es. Piccolo mondo antico (1940) di M.Soldati, Giacoma l'idealista (1943) di A.Lattuada), l'altra che tentava di riagganciarsi alla realtà rifacendosi da un lato al documentario (Uomini sul fondo (1941) di F.DeRobertis) e dall'altro lato alla scuola francese d'anteguerra (La peccatrice (1940) di A. Palermi). Lentamente si cominciano cosi a scoprire diversi moduli espressivi che pur non proponendosi ancora in aperta rottura col passato cercano nonostante tutto di assicurare al cinema una maggiore autonomia. Rifarsi al formalismo calligrafico di matrice ottocentesca significava rivendicare al cinema il diritto di autonoma cittadinanza nell'apparato culturale in nome dell'arte per l'arte, mentre, d'altro canto, aprirsi alla corrente documentarista e alla scuola d'oltralpe comportava il bisogno di restituire al cinema quell’aggancio col reale che il fascismo aveva ostinatamente negato. In effetti, il fatto stesso di porsi il problema di una consona rappresentazione del reale costituiva
un'implicita ammissione della rilevanza di quelle istanze sociali che il regime aveva misconosciuto e che col Neorealismo avrebbero invece preso il sopravvento. I capisaldi di questo nuovo sguardo sul mondo sono.. i bambini ci guardano (1943) di V.De Sica, con la sceneggiatura di C.Zavattini, e Ossessione (1943) di L.Visconti. Spietati e pessimistici, questi due film, che ritraevano un’Italia in crisi e un popolo inquieto e insoddisfatto, furono entrambi invisi al fascismo. Se in I bambini ci guardano si propone la disgregazione della famiglia, che per il fascismo era insieme all'impero uno dei fondamenti sociali, in Ossessione si pone piuttosto l’accento sulla passionalità e sulla corruzione dell'amore, scoprendo al contempo un’Italia operaia ben lontana dai moduli del conformismo nazionale.
LAURA TUSSI