Sa ancora di
Dogma style il cinema danese. Ma è sempre grande cinema e i nostri farebbero bene ad apprenderne stile ed approcci. Ne è la piacevole riconferma – dopo i piccoli successi di opere recenti come
Dopo il matrimonio e
Le mele di Adamo – questo film di
Per Fly, il quale conclude la trilogia sulla società del suo Paese con un’opera complessa e affascinante, che si presta ad essere discussa e letta su più piani: parte come film a tesi e poi vira sul lato umano e sul privato dei protagonisti, fino ad avvolgersi tutt’attorno ai loro sentimenti.
Se avevate avuto modo di vedere e di apprezzare
L’eredità, secondo film della trilogia (il primo – mai distribuito da noi – si intitolava
La panchina),
Gli innocenti fa sicuramente per voi. Laddove il trittico esordiva analizzando la situazione delle classi sociali più basse e il secondo film trattava una storia dell’
upper class, questa terza pellicola mette in scena la classe media, cui lo stesso regista del “neorealismo danese” (nulla a che vedere con l’omonimo movimento nostrano) dice di appartenere.
A fare da esponenti di tale ceto sono Carsten (un eccellente
Jesper Christensen), docente universitario di scienze sociali, e di Pil (
Beate Bille), sua ex-studentessa e amante, nonchè attivista politica. Il primo è un “cattivo maestro”, che teorizza senza ambire alla pratica; la seconda si lascia prendere da quelle idee, sbaglia (uccide un poliziotto durante un’azione dimostrativa) e finisce in prigione. La violenza in nome dell’impegno politico e pacifista è giustificabile? Sembra chiederselo (e chiederlo) il regista con quest’esordio, prima di passare a privilegiare il lato umano della vicenda (nel momento in cui Carsten sorregge la sua amante in carcere) e prim’ancora di rivolgere la sua attenzione (nell’ultima parte) al lato più intimista e privato della storia, quello in cui Fly mostra come i protagonisti siano costretti a convivere con la colpa e il silenzio, in una sorta di
Delitto e castigo moderno di ambientazione nordeuropea.
Dal punto di vista estetico, domina felicemente il film l’uso ostentato (e tutto danese) della luce naturale, che dà la sensazione dell’oppressione e del senso di colpa che permea la storia (il buio è non a caso sempre invadente) e riflette tutta la tristezza e l’inevitabilità degli eventi. Altrettanto felice è la scelta degli attori protagonisti, tutti ottimi, espressivi, coinvolgenti ed emozionanti, quanto un’opera del genere richiede.
Ne risulta così un film che, proprio per scelta dell’autore, decide di non veicolare il suo messaggio in modo chiaro e forte, lasciando spazio al dubbio morale, dando anche la sensazione di non convincere fino in fondo. Ma d’altro lato, è proprio questa poliedricità la sua forza, quella che lo rende una piccola grande opera da non perdere.
Genere: drammatico intimista, poetico e socialmente impegnato
Consigliato: a tutti gli amanti del nuovo cinema danese
Sconsigliato: se cercate azione e colpi di scena