Pensa se fosse Milano a rilanciare la politica
Cattolicesimo popolare, socialismo municipale, sindacalismo e formazione professionale. Milano è una città che se deve parlare di se stessa, delle componenti ideologiche, culturali e politiche che ne hanno caratterizzato la società per almeno un secolo e mezzo, dall’Unità in avanti, si presenta come una realtà che ha sempre considerato inutile lo scontro tra appartenenze e utile, invece, la possibilità di farle confrontare per dare spazio a possibili superamenti. Non è mai stata una scelta ecumenica o l’elogiuo delle buone maniere. La preoccupazione era dimostrare che era possibile trovare dei luoghi e delle forme in cui quelle divisioni venivano annullate da una proposta politica e da una sintesi culturale. Lo slogan era semplice: la politica è un dato artificiale, non è il riflesso naturale delle divisioni preesistenti La politica esprime la possibilità della “quadra”.
Essenziale, ogni volta, era individuare o inventare un luogo. Poteva essere l’Umanitaria, la Cattedra dei non credenti, le scuole di formazione professionale,le esperienze di amministrazione delle giunte degli anni ’50 e poi del centro-sinistra, i circoli culturali, i luoghi di eccellenza, in ogni caso lo spazio di interlocuzione non è stato mai chiuso o contrapposto in questa città. Quelli erano luoghi della propria personalità ma anche possibili punti di intercultura. Certo rimanevano i luoghi dell’identità, gli spazi della contrapposizione. Ma la sfida era pensare e fondare una geografia di ponti. Ovvero di snodi dove si sperimentava la curiosità, la capacità di andare oltre il senso comune. In questo sforzo si produceva politica.
Il problema non era abbassare il livello della propria appartenenza o delle proprie convinzioni. Era riconoscere e praticare una dimensione di laicità. Laddove per laicità è da intendersi non un’etica relativistica, uno sguardo compromissorio, una dimensione culturale arrangiata. Questa è solo la versione caricaturale diffusa da signori beati della propria autosufficienza identitaria. Essere laici significa essere antidogamatici. Sapere che la propria identità è un tratto fondamentale della propria persona a cui non si rinuncia ma che non ha risorse sufficienti per rispondere a tutte le domande e in grado di avere tutte le risposte a fronte di tutte le sfide. Essere laici significa prima di tutto sapere di avere dei limiti. Forse anche essere umili. Comunque non avere una dimensione beata della propria presunta onnipotenza.
Lo scenario che oggi abbiamo di fronte è molto diverso. E’ difficile pensare un luogo che in questa settimana sia in grado di esprimere una possibile dimensione oltre il conflitto guelfi/ghibellini che ormai sembra aver acquisito il dies familiae (espressione più efficace del family day). In nome di un vissuto della politica a Milano sarebbe auspicabile che si esprimesse un luogo entro sabato e che in quel luogo avesse spazio e cittadinanza la dimensione antidogmantica, ovvero la laicità come procedura mentale in risposta e come possibile via d’uscita alle piazze identitario di Roma che da lontano si guarderanno ognuna rivendicando per sé la propria italianità. Non credo che si verificherà. Di nuovo la politica come appartenenza segnerà un punto a suo favore. Sarà come voltare le spalle alla dimensione della contemporaneità.
Alla fine dunque ci saranno due piazze mediatiche che esprimeranno l’identità. Nessuna sarà in grado di andare oltre se stessa. Sabato andrà in scena dunque l’Italia di sempre, un insieme pigro, che rinuncia per principio a pensare la politica ma che pensa che la politica sia l’effetto automatico dell’adesione a un club di cui non si discutono né si modificano le regole di comportamento e di relazione.
Il problema non è quello di trovare un luogo fisico, in base a una memoria passata oppure a un’esperienza precedente. Questa soluzione sarebbe di per sé patetica. Comunque alluderebbe a un museo. Qui si tratta invece di inaugurare una politica e non rinverdire una che appartiene ad altra stagione. Non c’è uno spirito del luogo capace di creare una condizione culturale. Alla rovescia. Quel luogo non c’è perché non c’è la domanda che lo produce e perché non c’è la dimensione culturale in grado di esprimere una condizione antidogmatica o in grado di sopportare l’idea di andare oltre il proprio orizzonte specifico di appartenenza. E non c’è per paura. Ma l’esigenza anche se inevasa, resta egualmente e così la domanda di politica. Anche per questo non sarebbe irrilevante che a Milano, una città che ha inaugurato l’antipolitica quindici anni fà, si esprimesse un evento che, alla rovescia, ne denunciasse la sterilità. Non accadrà. Per farlo occorrerebbe non solo fantasia, ma anche una dose consistente di autentica propensione al rischio. Non si intravedono.
08.05.07 14:51 - sezione
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