Come ti svuoto il conflitto d’interessi
di Nicola Tranfaglia
Il governo Prodi sta perdendo ancora una volta un’occasione preziosa per eliminare dalla scena politica italiana un evidente problema che l’avvelena, come è già avvenuto nell’ultimo decennio berlusconiano. Nei giorni scorsi alla Camera dei deputati (e riprenderà l’11 giugno) si è svolto un dibattito viziato dall’ipocrisia del centro-destra che ha accusato la maggioranza di volere, con il disegno di legge 1318-A, eliminare dalla scena politica Silvio Berlusconi tacendo il fatto che l’attuale capo dell’opposizione può continuare a far politica e ridiventare presidente del Consiglio alla semplice condizione di non essere, nello stesso tempo, il proprietario-controllore delle televisioni sue e della Rai (con il recente acquisto di Endemol e i suoi uomini all’interno dell’azienda pubblica). Ma il disegno di legge in discussione davvero combatte efficacemente il pericolo del conflitto di interessi per i titolari delle cariche di governo nazionale e locale, come affermano i leader del nuovo Partito democratico, Franceschini e Violante che sostengono la legge?
Noi diciamo di no per ragioni limpide e più volte ripetute in Aula dall’on. Licandro. La prima è che il disegno di legge indica quali sono i soggetti possibili del conflitto ma poi di fatto limita troppo le persone che possono perseguire gli stessi interessi in quanto legate al titolare. Si parla dei soggetti entro il secondo grado ma non di parenti e affini entro il quarto grado ed è chiaro che quando ci troviamo di fronte a grandi interessi e a concessioni dello Stato per grandi imprese non è difficile convincere parenti e affini come cugini, zii, cognati ad attivarsi per andare in aiuto di un ministro o di un presidente del Consiglio in modo da perseguire in maniera sostanziale gli interessi prevalenti del gruppo familiare. Limitare soltanto al coniuge o ai parenti entro il secondo grado l’efficacia della legge dà ai cittadini garanzie del tutto insufficienti.
Ma il problema si aggrava ancor di più quando si parla del blind trust, ovvero «amministrazione cieca», che dovrebbe intervenire per sanare il conflitto del soggetto che partecipa al governo del Paese o di ente territoriale (regione, provincia o comune oltre i quindicimila abitanti) e vuol mantenere il suo incarico senza vendere il suo patrimonio, materiale o immateriale (soprattutto mediatico). In questo caso entrerebbe in funzione un personaggio individuale, o soggetto giuridico, dai contorni indeterminati che amministra il patrimonio del soggetto, senza dirgli nulla sull’andamento dei suoi affari. Una costruzione astratta, quest’ultima, che impone di creare un altro ente, un’altra Authority accanto a quelle già numerose che già esistono, con cinquanta funzionari ben pagati dallo Stato e che non dispone neppure del potere diretto di far rispettare la legge e far decadere subito il politico investito dal conflitto di interessi. È questo l’aspetto più debole del progetto legislativo giacchè fissa un meccanismo complesso e farraginoso di sanzione per il politico che si trova nelle condizioni conflittuali e che guarderà con sufficienza alle multe di volta in volta comminate se non adempie ai comportamenti richiesti dalla legge. Per quel politico (che potrebbe esser Berlusconi, ma non soltanto lui visto che ormai esistono molti suoi imitatori che sono nel centrosinistra come nel centrodestra) non sarà un problema pagare multe piccole o grandi pur di mantenere il potere e far amministrare da qualcuno, amico o vicino, il suo patrimonio. Così la legge fallisce nel suo principale obbiettivo che è quello di impedire la commistione continua tra interessi pubblici e privati che segnano sempre, nella nostra esperienza costante, il prevalere dei secondi sui primi.
La verità è che in una democrazia, lontana dalla compiutezza come quella repubblicana (lo riconoscono tutti gli studiosi e gli osservatori in Italia e in Europa), non c’è alternativa: o si impedisce (con la ineleggibilità già esistente con la legge numero 361 del 1957 tuttora vigente e mai applicata dal parlamento contro Berlusconi dal 1994) oppure il titolare di conflitti di interessi non può essere fermato nelle fasi successive dell’applicazione legislativa. Qualcuno dice, anche nel centro-sinistra, che l’ineleggibilità è contraria ai diritti dei cittadini sanciti dalla Costituzione, ma chiunque conosce bene il testo fondamentale e le leggi sa che ci sono già altri casi, anche nell'ordinamento locale, e dunque che la tesi è infondata. Ma, se non si vuol parlare di ineleggibilità, parliamo di incompatibilità assoluta che scatta ex lege di fronte alla esistenza palese di un conflitto che incombe in un certo momento per un ministro o altra carica pubblica. L’importante è l’immediatezza e la sanzione della legge. Se questo non c’è allora prevale l’ipocrisia, l’accordo trasversale e la rinuncia ad eliminare il problema.
Beh, tranfaglia non mi pare proprio sta fonte cosi' attendibile con tutte le palle che ha sparato sui rapporti p.c.i. Urss. Anche stavolta e' volutamente ambiguo nel parlare di legge del 57 mai 'applicata' come se fosse stata volutamente e colpevolmente ignorata. In realta' la questione venne affrontata eccome nel 94 e nella sede competente: la giunta delle elezioni. Quell'organo decise che berlusconi era eleggibile. Punto.
Beh, tranfaglia non mi pare proprio sta fonte cosi' attendibile con tutte le palle che ha sparato sui rapporti p.c.i. Urss. Anche stavolta e' volutamente ambiguo nel parlare di legge del 57 mai 'applicata' come se fosse stata volutamente e colpevolmente ignorata. In realta' la questione venne affrontata eccome nel 94 e nella sede competente: la giunta delle elezioni. Quell'organo decise che berlusconi era eleggibile. Punto.