Non lasciamo che decida Vespa
di Alfredo Reichlin
Il processo di dissoluzione del vecchio sistema politico italiano ha subito una ulteriore accelerazione. Per tante ragioni, tra cui la principale è il vuoto creato dal sostanziale fallimento del tentativo di dar vita a una seconda repubblica. Ma anche (io credo) per ciò che sta succedendo in Europa e di cui l’avvento al potere in Francia del fenomeno Sarkozy è un chiaro segnale. La dimensione della politica ormai è questa, non è più soltanto nazionale. Tutto quindi ci dice che un Paese come l’Italia è di fronte al rischio di una vera e propria deriva se resta prigioniero di un sistema politico fatto di oltre 20 partiti impotenti e rissosi, ferocemente attaccati alle loro vecchie e spesso artificiose identità ma incapaci di prendere le grandi decisioni che sono necessarie. Stiamo molto attenti. Spinta ai margini di un mondo investito dai mutamenti più grandi della storia moderna l’Italia rischia di rivivere la tragedia di una grande nazione che si sfarina nei particolarismi, nelle faide, nelle guerre di religione.
Perdendo così ogni identità, ogni idea di sé e, quindi, la fiducia nel suo futuro.
Che senso hanno le contrapposizioni che agitano la sinistra se non si affronta questa questione? Perciò io resto convinto del bisogno che hanno i partiti attuali di uscire dai vecchi confini. Essi sono semplici sopravvivenze se non mettono in campo una nuova iniziativa unitaria, la quale parli a quanto c’è di vivo e di nuovo anche in Italia, il cui profondo malessere dipende dal fatto che noi - la vecchia struttura politica del Novecento - non le diamo una rappresentanza.
La situazione sta diventando allarmante? Mi ha molto colpito sentire un uomo misurato come D’Alema (presentava un libro di Violante) porre la questione del partito democratico come la sola risposta positiva a quella che ha ammesso essere una crisi profonda della democrazia italiana. Una crisi che, anche a suo parere, sta arrivando a un punto di rottura: qualcosa che ricorda addirittura la rivolta contro i partiti al tempo di tangentopoli. E poi sentirlo aggiungere che l’impresa del Pd fallirà se non sarà una rivoluzione politica. Rivoluzione. Cioè rovesciamento del rapporto tra la politica e la società, fine dell’oligarchismo e dei «partiti personali», chiamare milioni di cittadini ad eleggere direttamente (una testa, un voto) la costituente del nuovo partito.
Chi mi legge sa che sono d’accordo. Ma una cosa vorrei aggiungere. Noi, a che cosa stiamo chiamando la gente a partecipare? Parlo di qualcosa che sia già oggi in grado di coinvolgerla fortemente, in termini di lotta politica e di scontro ideale e che riempia il vuoto politico che si è creato in attesa di quel fatidico giorno di ottobre. Non basta l’attività dei tre coordinatori. Guardiamo i fatti. Io non credo che «tutto va bene» (e sono anzi preoccupato). Ma a cosa servono certe polemiche volte a screditare il Pd come operazione «moderata»? Moderata? Vorrei capire allora il perché di questa offensiva che si è scatenata contro. Noi non siamo di fronte solo alle difficoltà della situazione, compresi gli errori nostri e del governo, ma a una offensiva contro il Pd che va dalla Chiesa post-conciliare a quel coacervo di corporazioni, rendite, conservatorismo (comprese certe vecchie culture politiche della sinistra) che pesa come un macigno. E questa offensiva è sostenuta nel modo più velenoso da quel potente complesso giornalistico e mediatico il quale interpreta l’orientamento di fondo delle classi dirigenti italiane: criticare la politica perché è debole e inefficiente, spesso corrotta, salvo poi attaccarla appena si delinei il rischio che essa si rinnovi e torni a comandare. L’eterna Italia delle consorterie, delle lobbies e delle mafie.
Ecco perché noi in attesa del 16 ottobre e dei «gazebo» non possiamo stare ai margini di questa lotta. Anzi spetta a noi occupare il centro delle scontro, e cominciare da ciò che riguarda la difesa dello Stato laico e dei diritti delle unioni non matrimoniali. È vergognoso accusare Fassino di subalternità ai vescovi. Le mediazioni sono a volte necessarie proprio per raggiungere lo scopo. Ma ciò che a me sembra veramente importante è uscire dalla difensiva. È collocare la questione del laicismo in quella che è la nuova dimensione che essa ha assunto in un mondo che ha rimesso in discussione tutte le identità, tutte le culture, le frontiere, le credenze religiose. Anche per questo la difesa del laicismo e della dignità delle persone è più che mai cruciale. Ma è penoso pensare di vincerla con gli argomenti che erano forti ieri. La battaglia laica noi possiamo vincerla solo se la conduciamo in modo tale da interpretare il bisogno di nuovo umanesimo, di nuova cultura della convivenza tra diversi e di nuovi diritti di cittadinanza in un mondo che è post-statale. E io credo che sta qui la prova che è necessaria una cultura politica nuova rispetto a quella del Novecento.
Il partito democratico può essere il luogo di questa elaborazione? Io credo e spero di sì. Io non dimentico che l’Italia ha l’assoluto bisogno di una forza che tenga insieme la grande tradizione laica e liberal-socialista con la difesa di quella pace religiosa che in un Paese come il nostro è la condizione per garantire il progresso sociale e lo sviluppo di una democrazia di popolo, cioè una democrazia che non riguardi solo le elites e faccia argine alle spinte populistiche.
Ecco perché chiamiamo la gente a partecipare. Certo per rilegittimare la politica e un nuovo soggetto politico con milioni di voti ma in nome di una riscossa democratica.
Gli errori e le colpe del ceto politico non sono difendibili. Ma la malattia della democrazia italiana è più profonda. Parafrasando Pietro Scoppola io direi che si tratta di portare a compimento «il processo fondativo della democrazia italiana». In sostanza, quello che le vecchie classi dirigenti italiane, a differenza dei grandi Paesi europei, non hanno mai voluto fare: accettare, cioè quel fondamentale «compromesso» democratico con il loro popolo che consisteva nel riconoscere i suoi rappresentanti come governanti a pieno titolo e non «figli di un dio minore». Senza di che ogni cambio di governo finisce in Italia col determinare una specie di crisi di regime.
La guerra fredda, i caratteri specifici e gli errori del Pci hanno molto pesato ma non spiegano la singolarità della storia italiana: il fascismo (che viene prima del Pci) e il perché la borghesia italiana si affidò ad esso, nonché il fatto che anche dopo il crollo del comunismo e la fine del Pci il Paese non è tornato ad essere normale.
Vennero invece in piena luce le contraddizioni e le «incongruenze» della storia italiana. Riemerse, dal profondo della società, una destra senza storia di tipo non europeo, insieme con i vizi antichi di un popolo restio alla legalità, insofferente dello Stato e la debolezza, al tempo stesso, di uno Stato lontano dalla società.
Di qui - dice Scoppola - l’esigenza del compimento del processo fondativo della democrazia italiana, compimento che in parte avvenne con la Resistenza e il patto repubblicano e costituzionale ma che subì un duro colpo con l’assassinio di Moro.
Si tratta quindi, necessariamente, di chiamare ad essere protagonisti i soggetti popolari radicati nella storia del Paese in stretta collaborazione con altri filoni del riformismo italiano. E aggiungeva (cito): «Abbiamo un po’ tutti commesso l’errore di immaginare la transizione italiana a un livello esclusivamente politologico; di non vederne le condizioni più profonde culturali ed etiche. Come se il passaggio al maggioritario e al bipolarismo garantisse per sé solo il compimento di quello che ho chiamato il processo fondativo della democrazia italiana».
Perciò il partito democratico, se vuole essere davvero un partito nuovo, e al tempo stesso avere un fondamento, deve riprendere questo processo incompiuto e portarlo avanti coerentemente. Non si tratta solo di culture riformiste da mettere insieme ma di pezzi di popolo che hanno perduto le vecchie identità e hanno bisogno di ritrovarsi in una identità comune, più ampia e più comprensiva.
Questa è la partita vera che si sta giocando. Ma nel frattempo la politica si fa processare (giustamente) per le auto blu e i portaborse, mentre il potere economico provvede a concentrarsi al punto da affidare a due banche tutto il governo del credito, condizionando così la vita di milioni di imprese. Un potere enorme. Dove si parla di queste cose? Confesso che mi è diventato penoso guardare la tv. Fa male assistere al modo come i leader, quelli a cui spetta guidare il Paese, si sono sottomessi ai conduttori televisivi. A quattro giornalisti tipo Vespa è stato consegnato l’altro grande potere: quello di comunicare essi col Paese, decidendo essi le domande da fare, definendo cioè essi l’agenda del Paese. Non è poco. I capi politici si affannano, litigando e urlando tra di loro, di dare le risposte.
Mah...
cosa dovrebbe spingere i politici a finire il "processo fondativo della democrazia italiana"? Questo non lo capisco proprio: stanno bene cosi'. Anche se i sondaggi danno un'immagine di scoramento della gente dalla politica, altre scelte non ci sono.
Inoltre Alfredo Reichlin guarda ai modelli stranieri (oggi va di moda appoggiare o silurare Sarkozy prima che abbia aperto bocca) senza trarre una conclusione.
Infine parla della fusione bancaria appena attuata quasi. Ho sentito una vena di preoccupazione, quando dice "...mentre il potere economico provvede a concentrarsi al punto da affidare a due banche tutto il governo del credito, condizionando così la vita di milioni di imprese..."
Se si vuole competere a livello mondiale, o si cresce o si viene accorpati dagli stranieri, tipo ABN-AMRO.
Iniziano ad essere estremamente fastidiosi questi pseudointellettuali che trovano anche nella descrizione delle loro emorroidi qualche giustificazioni per quella boiata pazzesca che è il PD. E piu emerge quanto sia sbagliato e contraddittorio il PD piu' loro lo giustificano con argomentazioni sempre piu' ridicole... patetici!
Facciamo come nei paesi civili (inghilterra).
Niente polveroni politici, ma un fatto alla volta.
Con insistenza e precisione.
E partiamo dal libro di stella.
1) il quirinale (che costa più della corona inglese) lo vuole rendere pubblico il suo bilancio, o no?
2) il "gentiluomo" e "padre fondatore" napolitano è disposto a dimezzare le spese (come ha fatto la regina inglese)?
3) berlusconi si auto-deliberato 31 uomini di scorta e 15 macchine (anche ora che non è presidente). Vogliamo levarle o no?
etc. etc.
Voglio dire: argomento per argomento, fino ad ottenere il risultato.