Capaci, come scoprimmo la verità
di Gian Carlo Caselli
Non è facile - a quindici anni dalla strage di Capaci - evitare la retorica nel doveroso ricordo di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Provo a farlo in due modi. Innanzitutto rievocando un episodio di importanza davvero straordinaria nella mia esperienza palermitana. Avevo deciso, dopo le stragi del ’92, di trasferirmi da Torino a Palermo, per provare a raccogliere la pesante eredità di Falcone e Borsellino (consapevole dei miei limiti, ma anche del decisivo aiuto di tanti generosi colleghi).
La ritrovata unità della Procura ci consentì - operando in simbiosi con le forze di polizia - di catturare un numero imponente di latitanti di grosso calibro. Fra questi Santino Di Matteo, mafioso di Altofonte, che appena arrestato chiese di poter parlare personalmente con me.
Ci andai: mi squadrò, negò persino di avermi mai chiamato e rimase zitto. Qualche settimana dopo chiese di nuovo di incontrarmi. Ci tornai: questa volta accennò a problemi che aveva avuto in carcere. Disposi le verifiche necessarie e poi fu scena muta. La classica situazione che Andrea Camilleri avrebbe chiosato con la formula «Nuttata persa» (con quel che segue). Mi ripromisi che se anche mi avesse ancora chiamato non ci sarei più andato. Temevo infatti che volesse studiare i miei movimenti, magari per farmi «intercettare» da qualche mafioso ancora in libertà.
Ma ovviamente - quando per la terza volta mi fece sapere che voleva essere sentito proprio da me - tornai da lui. Per una serie di ragioni, riuscii ad arrivare nell’ufficio della DIA di Roma, dove nel frattempo era stato portato, solo verso le due di notte del 23 ottobre 1993. Cominciò così (per concludersi intorno alle sei del mattino) un interrogatorio destinato ad assumere un posto centrale nella storia della lotta alla mafia.
Con mia grande sorpresa, infatti, Santino Di Matteo volle prima di tutto parlare della strage di Capaci, alla quale (nessuno lo sapeva) confessò di aver materialmente partecipato. Dell’organizzazione ed esecuzione del feroce attentato, del chilometro e mezzo di autostrada polverizzato con l’esplosivo, fece un racconto dettagliatissimo, elencando uno dopo l’altro tutti i responsabili e precisando per ciascuno il ruolo svolto. Enorme ( si può ben comprendere) fu la soddisfazione mia e degli uomini della DIA che erano in quel momento con me: eravamo i primi - io come magistrato, loro come funzionari di polizia - a conoscere e scoprire la verità di Capaci. I mafiosi «corleonesi» che avevano ideato e attuato lo spietato attacco frontale al cuore dello Stato avevano per la prima volta, con attribuzione certa a ciascuno di precise responsabilità, nomi e cognomi. Una grande vittoria dello Stato. Giustizia, per Giovanni Falcone ed i suoi compagni di sventura. Per «Cosa nostra» una sconfitta bruciante, l’avvio di una rovinosa catena di «pentimenti». Una slavina che la bestialità mafiosa cercherà di fermare con una rappresaglia (di vero stampo nazista) sul figlio tredicenne di Santino Di Matteo, Giuseppe: sequestrato, tenuto prigioniero per diciotto mesi, maltrattato e torturato, alla fine ucciso (strozzato a mani nude) e sciolto nell’acido. E tutto questo «soltanto» perché figlio di suo padre, essendo questi il primo «pentito» che aveva osato infrangere l’omertà che avrebbe dovuto proteggere per sempre i segreti di Capaci.
L’altro modo per ricordare Falcone mi è offerto da un libro del 1999 ristampato proprio in questi giorni, intitolato La mafia ha vinto. Un libro di Saverio Lodato (esperto come pochi altri di storie di mafia) che contiene il resoconto di numerosi colloqui con Tommaso Buscetta, il «pentito» che aveva consentito a Giovanni Falcone di mettere «Cosa nostra» in ginocchio. Rileggere questo libro è importante (come spiega Luigi Li Gotti, storico legale di Buscetta) perché «non è come scorrere le pagine ingiallite di una storia passata, ma, mutando i nomi e i volti, sapere oggi ciò che potrebbero scrivere i cronisti di domani».