Che fine farà la sinistra smarrita?
di Bruno Gravagnuolo
Che fine ha fatto la sinistra? Esiste ancora come campo attivo di valori, oppure è andata smarrita senza che ce ne accorgessimo?
Inevitabile porsi queste domande dopo la sconfitta del centrosinistra alle elezioni amministrative, dopo il caso «Visco-Speciale» e le fibrillazioni della maggioranza che abbiamo visto. Tutte cose che ribadiscono un dato ormai inconfutabile, di là della fragilità di questo governo, frutto di elezioni vinte a metà e pressato da una destra montante.
E il dato è questo: il deficit di egemonia del centrosinistra. Vale a dire, una mancanza di capacità persuasiva verso le forze produttive del paese. In ordine alla necessità e all’utilità delle ricette adottate.
Le quali appaiono al più inevitabili, dure e «razionali», ma altresì inadeguate a rilanciare lo sviluppo e ad alleviare le condizioni di vita del lavoro dipendente, gravato nell’ultimo quindicennio da perdita del potere d’acquisto, peggioramento del quotidiano e da regresso della mobilità sociale verso l’alto.
Non intendiamo entrare nel merito delle scelte tecniche adottate negli ultimi quindici anni, a partire dai governi Amato e Ciampi e proseguite con qualche continuità dagli esecutivi di centrosinistra fino ad oggi. Scelte segnate dall’emergenza dei conti e dal peso del vincolo internazionale, con gli obblighi dell’Euro in primo piano. E che hanno contribuito a salvare il paese dalla deriva.
Ma è chiaro che la cultura virtuosa dell’emergenza di bilancio non basta. A superare l’ingovernabiltà del paese e il suo bipolarismo selvatico. E ad aiutare questo governo a uscire dalla secche della precarietà, evitando le tante tagliole di cui è disseminata la sua strada. Non basta se la sinistra è smarrita. Se è divenuta ininfluente sul senso comune degli italiani. Incapace di progettualità e visione. Sgretolata e scarsamente radicata. Impotente a costruire consenso attorno a un alfabeto di valori, priva di soggettività di massa e forza propria, debole nel prospettare emancipazione generale e utilità collettiva (non il teologico «Bene comune»). Ebbene, su tutto ciò è giunta l’ora di aprire una discussione seria, senza infingimenti ed eufemismi. Alla quale l’Unità intende riservare ampio spazio, invitando a intervenire chiunque riconosca almeno l’urgenza del tema. Compresi ovviamente coloro che non condividono le considerazioni che stiamo per esporre.
Dunque «sinistra smarrita». Che significa? Significa innanzitutto la fine di un insediamento storico, cementato nel dopoguerra in prevalenza dal Pci. E che gli eredi del Pci sono stati incapaci di rinnovare e aggiornare, senza buttare il bambino e l’acqua sporca. Sicché sull’onda di trasformazioni dirompenti e non governate - che hanno inciso sul suo Dna di massa - la sinistra è approdata via via a un rovesciamento di valori profondo. Che ne ha alterato profilo e vocazione, rendendola subalterna ad altri valori e ad altri paradigmi. Cioè irriconoscibile o insostenibilmente «light», intimamente depotenziata. Proviamo allora a delineare alcuni punti d’approdo di questa «mutazione». Punti che assumiamo in negativo come emblemi di ciò che ai nostri occhi non è sinistra, e né può esserlo.
Primo: «il leaderismo». Ovvero la politica di massa incentrata sul leader carismatico come risolutore e «chiave di volta» del bipolarismo. Una tendenza particolarmente esasperata in Italia, inaugurata simbolicamente da Craxi e scissa per lo più dal contrafforte partitico, programmatico e parlamentare. E proprio la particolare versione italica del leaderismo - connessa alle assurdità sul cosiddetto e inesistente «premierato» - ha avuto un ruolo determinante nello «squagliare» la partecipazione quotidiana e di massa nel segno di appartenenze vissute e responsabili. Le quali poi non sono affatto in contrasto con la cittadinanza, ma anzi la potenziano. Come l’esperienza del 900 dimostra. E i risultati sono stati, personalismo, microleaderismo notabilare (in periferia) e infine il «leaderismo senza leader», da cui è affetta l’attuale discussione sul leader del Partito democratico, sorta di cantiere sull’abisso dove di tutto si parla fuorché di politiche per l’Italia. Dunque il leaderismo all’italiana non è di sinistra.
Secondo: «Legge elettorale e mito della governabilità». Non sono di sinistra. Perché quel che conta non è il maggioritrario in sé come panacea. Poiché anche un maggioritario secco - specie nella versione insensata dell’attuale referendum - può confermare e complicare le divisioni di uno schieramento. Può restituire tutta la frammentazione del territorio, rafforzando i capicordata locali, come abbiam visto ad abundantiam. E può moltiplicare i ricatti nei singoli collegi, stante l’utilità marginale anche di poche centinaia di voti. Al contrario, ciò che assicura un minimo di stabilità sono «partiti a baricentro culturale forte», modernamente identitari e laici, e in grado di arginare il sempre risorgente trasformismo.
Terzo: «Monetarismo e politiche di bilancio ermetiche». Non sono di sinistra. Né sotto forma di alti tassi di interesse e bassi salari. Né in termini di blocco della spesa pubblica legata a investimenti, formazione e infrastrutture. Non per caso Jacques Delors propose anni fa di defalcare quelle spese dal calcolo dei parametri di Maastricht. Bene, che ne è stato di quelle raccomandazioni, in una con quelle di Prodi di non impiccarsi a «parametri stupidi»? Perché Berlusconi ha goduto di tante franchigie nel rientro (mancato) dal deficit, e invece Prodi è così «sotto tutela»? Altro invece è il discorso sulle spese improduttive, come quelle di una politica sopradimensionata. E altro gli sprechi, l’assenteismo, e i diritti senza doveri. È qui che occorre intervenire a sanare e a far cessare privilegi scandalosi del ceto politico. Che nulla hanno a che fare con la dignità della politica e delle istituzioni. Inammissibile ad esempio che una legislatura, o due anni di essa, diano diritto a una pensione e non a contributi da sommare. E insostenibile che un assessore di una media città costi allo stato, portaborse inclusi, 20mila euro netti al mese! E sono cose che si conoscevano ben prima del best seller La casta. Queste le vere riforme istituzionali, «di sinistra».
Quarto: «Lavoro e flessibilità». Così come mediamente vengono «declinati» dalla sinistra riformista essi non rispondono a criteri di sinistra. Il lavoro infatti dovrebbe essere il caposaldo e la prima ragione sociale della sinistra, quella da cui nasce e di cui si alimenta. Non già dunque un «fattore» tra gli altri, ma un diritto primario e un orizzonte di valore. Quale? L’emancipazione stessa del lavoro, la sua «auto-padronanza». La sua priorità gerarchica dentro le trasformazioni dell’economia, che non possono ruotare attorno al predominio dell’azienda privata, i cui fini non sono di per sè «interesse generale». Né in linea di fatto né in linea di principio. Quanto alla «flessibilità», è l’economia che deve rendersi flessibile alle esigenze del lavoro, e non il contrario. Legittimandosi la prima - e in termini costituzionali- solo se assicura sviluppo e occupazione, nel rispetto dei vincoli ambientali e dei diritti della comunità. La competizione globale? Un vincolo, certo non aggirabile. Ma un vincolo appunto, e non un obiettivo, una finalità. Vincolo da rispettare facendo crescere insieme impresa e lavoro, nella prospettiva di estendere regole e diritti universali anche ai paesi che non li rispettano. Ed è esattamente questa «l’esportazione della democrazia» che compete alla sinistra. Il resto? È liberismo, magari con la copertura di politiche imperiali e di guerra.
Quinto: «Laicità». Non è di sinistra una laicità intesa come «dialogo» puro e semplice, o come «sana laicità» che assuma al suo interno le «radici cristiane» da privilegiare comunque. Laicità viceversa è la «neutralità attiva» dello stato tra le fedi. Promozione di regole che sono anche valori civici di libertà, solidarietà, criticità della cultura, autonomia della ricerca. Ben venga l’apporto della «sfida religiosa» sui grandi problemi, ma non al punto da comprimere e compromettere quei valori, avanzando la pretesa di penalizzare giuridicamente gli «stili di vita» dei singoli difformi dalla tradizione.
Sesto: «Privatizzazioni». Bene quelle volte all’interesse dei consumatori, e contro privilegi corporativi. Male quelle che annullano il ruolo propulsivo del pubblico nelle alte energie, nei trasporti di massa, nella scuola, nella sanità. E anche nei settori tecnologici avanzati. Nessuno stato nazione - di sinistra o di destra - rinuncia al suo ruolo in molti di questi campi, specie nell’ultimo. Laddove da noi molte privatizzazioni sono state un vero assalto alla diligenza da parte di concentrazioni finanziarie che hanno riversato il debito sugli utenti, e non hanno investito né innovato. Un’amara vicenda, dettata dall’emergenza dei conti, ma che non può essere assunta a stella polare della sinistra. Tutt’altro: molte di queste privatizzazioni erano agli antipodi di un orizzonte di sinistra. Erano «destra». E in più, proprio nel corso di tali processi di privatizzazione, sono emerse a sinistra tendenze a favore dei nuovi contendenti, per ridefinire la geografia del potere economico, e al fine illusorio di tracciare la mappa di un «nuovo capitalismo» (ma era vecchissimo!)
Infine, il «Partito democratico». Nelle intenzioni dei promotori doveva essere un’occasione straordinaria, una «fusione di riformismi» per dare stabilità e forza al centrosinistra. E invece rischia di apparire come un «errore di sistema»: destabilizzante e non aggregante. Una ricaduta fatale nel vecchio schema dei partiti parlamentari, notabilari e leaderistici dell’Italia post-unitaria. Si compendiano infatti nella «forma» di questo partito tutte le tendenze neoliberali e mercatistiche imposte dal ciclo neoliberista di fine anni ottanta ed esplose fragorosamente nell’Italia dei primi anni novanta. Vuol dire: fine della politica organizzata sul territorio. Della capacità di costruire un blocco sociale democratico attorno al lavoro dipendente, da contrapporre al nuovo blocco dell’individualismo proprietario di destra e al suo «neo-sovversivismo». Fine della selezione dei quadri dirigenti e della trasmissione della memoria tra le generazioni. Fine della sinistra con testa, braccia e gambe, come organismo pensante dotato di autonoma personalità e ideali. Della sinistra intesa come emancipazione delle classi subalterne: tutto a favore di una sinistra della mera inclusione liberale al banchetto dell’economia. Una sinistra «light» e di opinione. Ovvero: cittadinanza e consumi rescissi dal lavoro e dal potere. Non solo quindi si è liquefatto il cattolicesimo democratico e laico, assieme alla tradizione organizzata della sinistra storica. Ma si sono accresciute le divisioni in seno al nuovo aggregato in costruzione. Cantiere sull’abisso e «Azione parallela» generica, i cui conflitti interni si ribaltano sull’esile tenuta dell’esecutivo. Con il risultato acclarato di aver ristretto il potenziale del cosiddetto «timone riformista» dentro la coalizione. A vantaggio di disincanto, astensioni e scissioni, e del rafforzamento del versante più radicale del centrosinistra. Dubitiamo che il lancio delle primarie - dimidiate e frenate dalla leadership in carica - possa far lievitare il «cantiere sull’abisso». Fatto sta che al momento tutto si concentra su giochi procedurali chiusi, e rivalità personalistiche. Mentre intanto la destra lavora alla spallata contro il «governo delle tasse e dei tagli» («lavoro sporco» di cui si gioverà). Governo inviso all’impresa, e che non sfonda tra il popolo. Sinistra smarrita: eccolo il vero «riformismo senza popolo». Al quale non s’è posto rimedio, dopo il tanto parlarne. Eppure è tempo di trovarlo quel rimedio e ripensare tutto quel che non funziona, anche a costo di clamorose conversioni ad U. Di questo è urgente parlare, di questo vogliamo discutere. Su l’Unità, adesso.
"Si compendiano infatti nella «forma» di questo partito tutte le tendenze neoliberali e mercatistiche imposte dal ciclo neoliberista di fine anni ottanta ed esplose fragorosamente nell’Italia dei primi anni novanta.".
Ci mancava solo che si parlasse dell'IMPERIALISMO CAPITALISTICO AMERICANO ed eravamo a cavallo.
La verità è che tutte le forme di ottenimento del consenso (il porta a porta, la condivisione della realtà sociale con la gente, etc.) che un tempo usava la Sinistra, ora le utilizza la Destra.
Le visione ideologiche, settarie e spesso radical-chic di chi ha scritto questo articolo ci dicono perchè la Sinistra perde: perchè non è "popolare"!
Gravagnuolo è ottimo, individua lucidamente i nostri errori. Contrariamente a quel che dice Puiatti, ha il merito di evitare due errori: - la critica frontale alla sinistra di governo in nome di alternative antisistema (posizione rispettabile, ma minoritaria)- la autogiustificazione alla Fassino ("quando ci sarà il PD, tutti i problemi saranno risolti"). Dimostra che si può ancora praticare un "riformismo serio", che riscatti il termine dal disgusto che provocano le sue versioni alla Franco De Benedetti o alla Bassanini.
Gravgnuolo for President!
Sarei curioso di capire di più delle posizioni di Puiatti: persino fra i più convinti sostenitori del PD, persino molti dei migliori DS di Milano, non sono così faciloni e acritici nell'esaltarlo.
Qui siamo veramente "più realisti del re".
Ma per porta a porta intendeva il programma TV? E per condivisione sociale fiction?
O forse con il futuro premio nobel che manda il giornalino a casa?