Da “secchioni” a “pupi”. Tutta colpa del web e della retorica
I ritratti di Gandhi, Hitler e Mussolini che non evocano un nome (del resto non stanno nemmeno nel dizionario base di Microsoft); quello di Sandro Pertini non riconosciuto; Garibaldi confuso con Giuseppe Verdi (“Deve essere quello delle mille lire”) La foto di Carlo Marx, è l’unica a sollecitare una risposta immediata: “Babbo Natale”. Così i concorrenti de La pupa e il secchione, in onda su Italia 1 rispondono. Rappresentano un campione significativo o sono dei brutti anatroccoli? E’ una scena vera, nel senso cher l’abbiamo vista per davvero in televisione. Ma rappresenta la realtà o quello che abbiamo visto era il copione di una pièce comica? In ogni caso l’effetto è sicuro e il colpo va diretto in buca.
Tempi magri per la storia. Ma questo quadro, a giudizio di Stefano Pivato (Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Laterza, 144 p., € 10,00), coinvolge non solo una questione di memoria scolastica. La storia è in questione perché la sua funzione pubblica è decisamente incerta.
La storia e la sua conoscenza. Il senso del passato e l’orgoglio di averne uno. Molti li evocano ma il quadro all’interno del quale ci muoviamo quotidianamente è quantomeno comico. La storia non appare nemmeno una disciplina, ma un vago sapore, Un passato decisamente “annusato” (quando va bene) prima ancora che rifiutato o considerato parziale o “di parte”.In questione c’0è la storia, non solo come disciplina scolastica, bensì come sapere, come cultura civile. Riguarda la nostra testa e non ciò che abbiamo appreso a scuola e, soprattutto, come l’abbiamo appreso.
Pivato ricorda come non sia stato sempre così. C’è una mutazione che avviene nel corso degli ultimi venti anni, che riguarda il rapporto che la nostra società intrattiene con il passato. Un passato – anche quello prossimo – avvisato come distante e comunque percepito come pura somma di eventi e di date, senza significati propri se non quelli riferiti alle emozioni. Non è vero che più ci si allontana dal l’evento e maggiormente si diffondono incertezza e imprecisione. La distanza temporale non conta, conta quanto un evento pesa per noi e quanta nostalgia in esso si nasconda e solleciti.
Conta, in altre parole, prima di tutto, la rottura del passaggio generazionale. Il segnale più evidente è la marginalizzazione dei nonni, un aspetto che più generalmente rinvia alla crisi delle reti famigliari, un cosmo in cui erano i nonni coloro che consentivano la trasmissione della memoria, della conservazione del passato. Un passaggio che è rotto dall’irruenza della rete telematica, un luogo virtuale dove non c’è né prima e né dopo, né inizio né fine e che ha l’effetto – nel tempo - di ridurre l’esperienza della lettura del libro, un oggetto in rapida discesa, a consumo ridotto nell’Italia degli ultimi venti anni. Un luogo e uno strumento che rendono irreversibile la rottura generazionale.
Ma quello stacco non riguarda solo i luoghi del consumo culturale, della formazione e dell’informazione sul passato. Riguarda anche come lentamente si costruisca l’idea di un tempo inesistente piatto e di un paese – il nostro - che crede di risolvere il contenzioso intorno alla propria identità, con la retorica della storia condivisa. Una storia cioè, dove tutti hanno un ruolo e nessuno è fuori gioco. Dove tutti sono d’accordo e non si fa un torto a nessuno.
L’effetto è un paese piatto che dice di voler riflettere sulla propria storia, ma che fa finta. Un paese in cui il confronto con il passato è solo retorica, chiacchiericcio, comunque sguardo dal buco della serratura. Una dimensione dove conta il particolare, il pettegolezzo, oppure la discussione sui massimi sistemi. Ma dove non c’è la consapevolezza che discutere di storia significa confrontarsi con tecniche e dotarsi di metodologie; che una cosa sono i fatti e una cosa come si ordinano nella testa degli individui, nelle memorie sociali, nella storiografia.
di
David Bidussa
14.06.07 10:37 - sezione
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