La lezione dei maestri al Paese che non impara
La figura dei maestri è tornata improvvisamente al centro della scena in questi giorni. Da una parte l’editoriale di Pietro Citati dedicato alla nobiltà di un mestiere che non riceve adeguati riconoscimenti e dall’altra le affermazioni di Sergio Castelletto, l’attore protagonista della miniserie O' professore presentata a Napoli in questi giorni, liberamente ispirata ai racconti di Paola Tavella Gli ultimi della classe (Mondadori) e che andrà in onda per Canale 5 nel prossimo autunno.
Dentro la stoia italiana c’ è sempre l’immagine di un maestro che arranca. E’ un soggetto che non ce la fa con lo stipendio, che ha problemi con la propria immagine in un paese che ha sempre meno rispetto per chi sta dietro una cattedra. Sono i maestri i soggetti di un paese che ha avuto sempre rapporti inquieti con le tappe dell’istruzione. Una figura che nella storia italiana ha avuto alterne fortune ma su cui si sono spesso giocate e riflesse molte delle inquietudini sociali di una realtà che difficilmente ha saputo fare i conti con i processi di modernizzazione.
Ma soprattutto figura che è stata investita di un doppio ruolo: da una parte rappresentare le idee forti dello Stato, dell''amministrazione pubblica in tutte le sue differenti stagioni; dall'altra figura di frontiera ultimo anello di congiunzione tra un “stato lontano” e una società sommersa.
Prima apostoli laici, poi educatori fascisti e quindi convinti assertori del primato cattolico nell'educazione nella vita civile: garanti del formarsi dell'identità nazionale i maestri, più generalmente il corpo insegnate era non solo una funzione, ma anche un'immagine. I problema così erano la sua vita privata, il fatto che dentro o fuori dalla scuola la sua era comunque e sempre una figura pubblica a servizio “effettivo e permanente”.
Il maestro - soprattutto quello dei romanzi, poi quello televisivo delle fiction - è così sempre stato la figura attraverso la quale abbiamo raccontato non solo i nostri successi o insuccessi, ma anche i malesseri, le difficoltà, e forse ancor più profondamente la credibilità di un Paese. Un racconto che presenta sempre due tipi di storie: o la descrizione dei conflitti dentro la classe dove la figura del maestro costituisce il punto di mediazione; oppure la descrizione della solitudine del maestro costretto a rincorrere i propri ragazzi fin dentro le loro case, a cercare le loro famiglie, a convincerle che la scuola non è contro di loro, ma una possibilità di avanzamento, e l'occasione possibile, forse l'unica per pensare a un riscatto sociale. Una vicenda tradizionale si potrebbe dire , cui hanno alluso Padre padrone di Gavino Ledda o Un anno a Pietralata, la miniserie televisiva degli anni '60 che per la prima volta portava al centro della scena non la Roma di Cinecittà ma quella delle borgate che in quegli anni solo Pier Paolo Pasolini aveva la forza di proporre.
Sono due trame che in un qualche modo hanno popolato l'immaginario italiano da sempre e che stanno nei due romanzi centrali di De Amicis Uno più noto - Cuore - su cui si è costruita la stessa immagine di massa della scuola elementare e uno meno noto che non ha avuto la fortuna del primo - Storia di un maestro - che è invece proprio lo specchio della solitudine, della battaglia che un insegnante deve intraprendere non coi i suoi studenti, ma con le loro famiglie, con il paese, con i poteri costituiti perché finalmente sia riconosciuto il fatto che studiare, imparare a leggere non è una perdita di tempo, è una politica di investimento al futuro. A 120 anni dalla sua prima apparizione (Storia di un maestro è del 1891) e a circa cento anni dalla morte di De Amicis (che cadrà nel marzo 2008) la questione è ancora lì, tutta intera, come in parte ci ricordano Castellino e Citati. Ma non è solo una questione di stipendi (anche se quella questione c'è tutta e per davvero). E' anche una questione di funzioni, di senso dell'istruzione di rapporto tra una educazione generale e la sua produttivizzazione. Un secolo dopo siamo dunque ancora lì a chiederci se la scuola sia “utile” e a che cosa serva. E perciò ad affidare a una figura “missionaria” il possibile riscatto. Salvo poi non far vedere mai cosa accade dopo. Con l'effetto che di nuovo, a un altro ciclo si ripresenterà la medesima vicenda.
di
David Bidussa
fonte: Il Secolo XIX
10.07.07 00:07 - sezione
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