30% o tutti a casa
Caro Direttore, ieri mattina uno di noi ha incontrato in metropolitana un giovane dirigente diessino lombardo. Un amico con cui ci è capitato, in un passato molto recente, di condividere idee fortemente critiche sulla sinistra italiana, sulle sue linee di sviluppo, sull’ottusità delle scelte degli ultimi anni. Con lui e con altri, in particolare, si è condiviso per lungo tempo, anche sulle pagine di questo giornale e dell’inserto “milanocentrico” Ambrogio, il senso d’inadeguatezza di una proposta politica e governativa nei confronti dei territori più ricchi e produttivi del paese, quelli che stanno sopra il Po, e che il centrosinistra continua a considerare roba d’altri. Col bel risultato di non aver mai governato la capitale economica e finanziaria del paese per tutta la seconda Repubblica, e di non aver mai saputo seriamente scalfire il monopolio leghista/forzista sui territori che corrono sotto l’arco alpino, eccettuate alcune città medio-grandi (peraltro segnato da lunga tradizione operaia o cattolico-sociale), ed altre poche eccezioni temporanee che stanno tornando, una dopo l’altra, all’ovile berlusconian-bossiano.
Si dirà – nella sinistra romana o romanizzata lo si dice spesso, non senza una punta d’incomprensibile orgoglio – che il Nord in generale e il Nordest in particolare sono segnati da un Dna culturale, da una storia, che li allontana inevitabilmente dal centrosinistra, dalla sinistra italiana, dai suoi valori, dai suoi tratti fondativi. Tralasciamo l’obiezione secondo cui se i tratti fondativi della sinistra non le consentono di parlare, nel 2007, a chi traina l’economia di un paese, forse meriterebbero di essere ridiscussi. Sottolineiamo però che, se anche l’estraneità irreversibile dovesse riguardare la provincia padana, difficilmente potrebbe essere estesa alla città di Milano, che della sinistra riformista in Italia è stata culla, fucina e perfino metafora per qualche decennio.
Di tutto questo, con l’amico dirigente incontrato ieri mattina avevamo discusso con grande sintonia nei mesi scorsi. Da lui, e da una vasta schiera di dirigenti, anche ben più alti in grado di lui e sparpagliati da est a ovest lungo il tracciato del corridoio cinque, si sono raccolti tanti tasselli di un puzzle: partendo dall’ennesima finanziaria fatta di tasse e dalle infinite meline sulle infrastrutture, passando per il ripiano delle disastrate sanità di alcune ragioni del centrosud a spese dei bilanci virtuosi del nord, arrivando alle insicurezze e alle paure che – sentimenti di destra, non c’è dubbio – riguardano però soprattutto vecchi e donne.
Per tutto questo, ci ha lasciato – ingenuamente, ce ne rendiamo conto - stupiti, l’unanimismo con cui l’idea di primarie-plebiscito per il Sindaco di Roma è stata accolta da tutta una classe dirigente nordista che sembrava sempre sul piede di guerra, seppur la metafora si fermava un po’ prima degli ormai proverbiali 300mila randelli che furono di Umberto Bossi. Non è solo una questione di simboli, caro Direttore, ma anche di storie politiche, di paradigmi e pratiche amministrative, di sensibilità. Tanto che – ci saremmo aspettati – la candidatura di Veltroni venisse accolta almeno con qualche freddezza, e con la voglia sanamente dialettica di pensare a delle alternative vere, di sostenerle, di costruirle attorno all’architrave d’idee, relazioni, e rappresentanza d’interessi diffusi che – ci sembrava di aver capito – costituiscono poi l’essenza della politica in democrazie. Niente di tutto questo, da Torino a Milano, da Milano a Varese, e da lì verso est, le teste che annuiscono sono diventate fitte e ritmate come le dita sul telegrafo. Qualche eccezione, un Illy che protesta e si lamenta, un Cacciari che spara a zero ma poi torna quieto tra le gondole, e per il resto prime seconde e terze file a convincerci che una lista nordista accodata alla candidatura unica del sindaco della Capitale sia una grande vittoria.
Intanto, a Pierluigi Bersani – già lungamente sacrificato nell’immagine e nel potenziale da un’azione di governo retta da numeri da fame , e da un asse schiacciato sul partito della spesa e delle tasse- è stato detto chiaro e tondo di starsene al suo posto. Come sia, poi, che il posto di Bersani sta nella schiera dei portatori d’acqua, e non in prima fila a giocare in proprio, è una questione che mantiene tratti misteriosi a chi non conosce bene gli alchemici equilibri del partito. Un partito troppo preso a non perdere brandelli di militanza e di dirigenza, sulla via della fusione, per accorgersi che là fuori esiste non diciamo il mondo, ma quantomeno un paese. Ed è invece per equilibri di coalizione che Enrico Letta viene quotidianamente invitato a lasciar stare, a ripensarci, a non intestardirsi. Non è difficile immaginare che, nel tentativo di convincere un “giovane” politico – Letta ha l’età di Blair e Zapatero quando arrivarono alla premiership, e qualche anno in più del Cameron di oggi – a recedere dall’insubordinazione, ci sia anche la promessa di un ennesimo sottosegretariato, se e quando tutto andrà per il meglio. In cambio, ovviamente, dell’ennesima obbedienza.
Sarebbe piaciuto rivolegere nel dettaglio queste perplessità all’amico dirigente incontrato ieri mattina. E invece, più della fretta meneghina che tutti ci attanaglia, ha potuto la granitica risposta al primo accenno. Tutti sereni, tranquilli, in coda ad aspettare che qualcosa ricaschi su tutti. “Era un’occasione che aspettavamo da un pezzo”. Strano non averlo mai capito, mai saputo, mai sentito dire se non da un paio di veltroniani di lungo corso, che oggi rischiano perfino di essere sopravanzati da chi – ai piani altissimi della sinistra milanese – lo chiamava senza troppi filtri “lo sborone romano”. Ma se capiamo lo spirito dell’accodamento, se intuiamo bene l’operazione di autoproduzione delle classi dirigenti che questa epifania democrat hanno deciso, cesellato e poi imposto, allora ci permettiamo di chiedere una promessa. Se i fatti daranno loro ragione, se nascerà dal coro di osanna un partito vitale, che prende più del trenta per cento a livello nazionale e inverte la rotta al nord, a Milano, e così via, allora ci scuseremo. Ma se così non dovesse andare, se l’incoronazione non porterà il latte e il miele a scorrere per il regno, allora tutti a casa. Giovani e vecchi. Tutti.
di
Marco Alfieri e Jacopo Tondelli
fonte: il Riformista