Squadra, legge elettorale e giovani nell’agenda del Pd
Nelle due settimane seguite al discorso che Walter Veroni ha tenuto a Torino sono state già accadute molte cose. Dopo molte incertezze sembra che ci siano due candidati alternativi. Dunque, forse, non assisteremo a un processo per acclamazione. Se le primarie del 14 ottobre non inaugureranno una democrazia dell’applauso è probabile che la politica ne guadagnerà. O almeno, che si abbassi il tasso di antipolitica.
Questo tuttavia non è ancora un risultato. Diciamo che è un presupposto.
Perché si possa discutere di un risultato eventuale occorre che si delineino almeno altre tre questioni. La prima è che chiunque esca in testa da quella competizione – anche se non sembrano esserci dubbi sul risultato numerico – si muova nella direzione di definire una squadra che in gran parte contenga delle novità sostanziali in termini di figure singolari, ma anche di fisionomia complessiva. Ovvero nella costruzione di una squadra politica attrezzata a governare e definita rispetto ad alcuni dicasteri chiave che implicano politiche dello sviluppo e politiche delle relazioni e che in breve si riassumono nei seguenti punti nevralgici della politica: esteri; difesa; formazione e istruzione; economia. Accanto un vero coordinatore di una presidenza che sappia tenere il tavolo e soprattutto dia il senso di una squadra.
La seconda questione rinvia alla necessità di sapere che occorre porre la modernizzazione del sistema Italia. E questa non si risolve se non ponendo la riscrittura della riforma elettorale. Una questione che non è più solo di regole, ma di efficienza e di efficacia dell’azione politica. Se il confronto con la Francia di Nicolas Sarkozy (più volte evocato in queste settimane) ha un senso, lo ha soprattutto per questo: perché la dinamicità dell’azione politica è diventata la cartina di tornasole più evidente delle inefficienze della politica. Una condizione che nasce anche da un sistema politico bizantino, troppo impegnato a lanciare veti incrociati anziché atti di governo (anche se non è improprio ricordare che chi oggi si trova all’opposizione è il padre dfi ella legge elettorale attualmente vigente). Un governo che spesso appare come il calco del più classico esecutivo di coalizione della Prima repubblica quando valeva il sistema di relazioni basato sul proporzionale, a dispetto di una condizione nominale in cui il bipolarismo (per quanto corretto, parziale, imperfetto, tutto quel che si vuole) obbligherebbe a ragionare in termini di finalità programmatiche, e non di interesse specifico. Come è noto non c’è peggior stimolo all’antipolitica che dichiarare di essere qualcosa e dimostrare tutti i giorni di non esserlo.
La terza questione implica individuare per che cosa governare, ovvero quale modello di sviluppo proporre, articolare, perseguire e nei limiti del possibile realizzare. Un processo che riguarda la gestione, le linee di intervento sulle politiche di riconversione; le questioni della specializzazione del rilancio di politiche di sostegno alla ricerca scientifica e tecnologica. Pensare un governo e in termini di governo, dunque, implica scegliere ovvero operare un confronto che compone interessi, sceglie priorità, valuta opzioni alternative tra di loro.
Nel suo discorso di Torino (e in questi giorni vi è tornato, opportunamente) Veltroni ha toccato alcuni nodi rilevanti che sono sul tavolo della politica: giovani generazioni; previdenza; impresa; crescita; risorse; Europa. Un filo le attraversa e riguarda la questione giovanile. In altri tempi porre il problema delle giovani generazioni nella storia italiana, anche recente, significava intervenire sul piano del costume e su quello dei comportamenti. In breve riguardava la sfera delle convinzioni. Oggi implica intervenire sul piano degli assetti complessivi del paese. La questione dei giovani obbliga a rivedere la gestione previdenziale, le politiche dei lavori, gli ambiti della formazione professionale. E’ un complesso di sistemi e di valori che non sono più definiti dallo stile privato e individuale, ma dal modello di crescita complessivo che vogliamo assumere, in termini di politiche famigliari, abitative, lavorative, fiscali. Senza dimenticare un dato: il rischio che si inauguri una retorica sulla questione giovanile e sul disagio, che invece necessita di un’analisi e di una riflessione su dati numerici, sociali, culturali lavorativi circostanziati. Quel disagio c’è, e riguarda anche le delusioni degli adulti. Non c’è una società “sana” che ha il problema di far fronte all’emergenza giovanile. Quell’emergenza esiste perché complessivamente la società italiana è ripiegata su se stessa e non sa pensare in termini di futuro, ma solo di eterno presente. Del resto la legge elettorale che abbiamo non nasce sullo stesso principio e non risponde alla stessa filosofia?
di
David Bidussa
fonte: Il Secolo XIX
19.07.07 14:53 - sezione
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