La libertà di suicidio difesa da Turati
L’articolo 32 della Costituzione italiana recita al secondo capoverso: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La questione intorno al testamento biologico, in fondo sta tutta qui. Riguarda la decisione di predisporre il trattamento cui potrebbe essere sottoposto il nostro corpo in caso di incapacità di intendere e di volere. Questo su un piano tecnico. Su un piano di interazione sociale significa comporre tutti e tre gli attori fondamentali della scena: rendere effettivi i diritti degli malati; alleggerire le spalle dei famigliari dal peso delle decisioni più difficili; tutelare l’operato dei medici.
Il problema, tuttavia, non è tecnico. E’ culturale. Noi abbiamo oggi una discussione aperta sulla questione del testamento biologico perché non siamo in grado di sopportare il confronto con la morte. Non è solo un dato culturale o emozionale, è prima di tutto una condizione mentale. Riguarda l’immagine della morte che coltiviamo; le superstizioni che ci portiamo dietro; il rapporto che abbiamo con il nostro corpo; la nostra convinzione di fede.
Due fenomeni uguali e contrari hanno segnato il vissuto culturale ed emozionale intorno all’esperienza della morte nel corso del Novecento: da una parte la sua industrializzazione; dall’altra l’incapacità di fronteggiarla. La sua industrializzazione, ha indotto, per reazione, la centralità dei luoghi della memoria pubblica, laddove la morte di massa si è verificata (campi di battaglia, cimiteri di guerra, ossari, campi di sterminio,…). In quel caso il contatto con la morte (pur nella sua assurdità) sollecita una riflessione sui percorsi della responsabilità collettiva. Farsi carico di quei morti significa assumere su di sé il peso della storia.
Dall’altra parte, invece, il tema è l’incapacità di sostenere le tappe della morte individuale, più spesso la morte per vecchiaia o per lunga malattia. La morte, in questo secondo caso, è un evento difficilmente sopportato perché implica scelte che né il malato terminale né il nucleo della famiglia sono in grado di affrontare. E’ per esempio il caso dell’abbandono di terapie di contenimento in casi di tumori verso l’adozione di terapie palliative o di accompagnamento.
Il tema non è la morte, ma la decisione intorno ai suoi tempi. In questo caso la questione rientra nel vasto campo della decisione sulla interruzione dell’intervento di contrasto. A ben vedere, al di là del caso specifico, ovvero la liceità di interrompere le cure che consentono al malati di continuare a vivere, la questione è quella del diritto alla morte come sfera della libertà degli individui, della possibilità della decisione di darsi morte non come patologia (depressione, crisi della persona,…), ma come decisione di disporre di sé. Allo stesso tempo legando la propria sorte a quella dei vivi con cui si continua un confronto serrato e conflittuale. In questo senso e forse anche paradossalmente, quella decisione costituisce anche un momento di affermazione di sé.
È esemplare da questo punto di vista la decisione e la comunicazione con cui Paul Lafargue e Laura Marx decidono il loro suicidio. E’ il 26 novembre 1911 i coniugi Lafargue rientrano in casa da Parigi; salutano il giardiniere e si intrattengono cordialmente con la sua famiglia: raccontano del film che hanno visto in un locale della capitale. La mattina dopo, una domenica, sono trovati morti: Paul sdraiato sul letto, vestito, e nella stanza vicina, Laura, seduta in poltrona; la morte era stata provocata da un’iniezione di acido cianidrico. Nel testamento rinvenuto insieme ad altre ultime lettere, Lafargue aveva scritto: “Sano di corpo e di spirito, mi uccido prima che l’impietosa vecchiaia mi tolga uno a uno i piaceri e le gioie dell’esistenza e mi spogli delle forze fisiche e intellettuali. Affinché la vecchiaia non paralizzi la mia energia, non spezzi la mia volontà e non mi renda un peso per me e per gli altri. Da molto tempo mi sono ripromesso di non superare i settan’anni; ho fissato la stagione dell’anno per il mio distacco dalla vita e ho preparato il sistema per mettere in pratica la mia decisione: un’iniezione ipodermica di acido cianidrico.”
Filippo Turati su “Critica sociale”, scriveva due settimane rendendo omaggio alle loro figure: “questa è la morte che rinnega se stessa. Sempre nei grandi suicidi c’è l’anormale o il fatale, c’è lo sforzo, l’acrobatismo, la fuga o la sfida. Vi è ‘il gesto’, insomma. Il deluso, lo stanco, il disperato della vita, fuggono a uno strazio non sopportabile. Il martire della fede presume di fare passaggio a una vita migliore. Paolo e Laura Lafargue non hanno mai esitato né dubitato. Non è giusto dire che sono ‘morti’, che si sono ‘uccisi’. L’ora parve ad essi scoccata e ‘sono partiti’. Senza chiudere gli occhi nel terrore e senza rabbrividire.”
Partendo da un’altra condizione esistenziale, negli anni ’70 è stato Jean Améry a riproporre il medesimo paradigma, ovvero come diritto a scegliere e a decidere allorché in Levar la mano su di sé. Saggio sul suicidio (Bollati Boringhieri) analizza lo stato d'animo del suicida, difendendo la dignità della morte libera dai pregiudizi del senso comune, negando che il suicidio sia un chiaro indizio di follia, un gesto egoista o immorale. Il suicidio gli appare piuttosto come un ultimo disperato momento di affermazione di sé - un paradossale "Muoio dunque sono". Parallelamente, non accanirsi non è un gesto né beffardo né impertinente, riguarda il diritto di decidere di sé e per sé. Un dato su cui dovremmo riflettere in un’epoca in cui la ricerca del gesto eroico, della esaltazione della vita esemplare induce troppo spesso a negare dei diritti, a contenere la propria individualità in nome di una “pedagogia della vita virtuosa” che non c’è.
di
David Bidussa
fonte: il Riformista
24.07.07 15:30 - sezione
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