Stanno vincendo i blogger. Non meravigliatevi
di Robert Fisk
Disprezzo Internet. È irresponsabile e, spesso, è una rete di odio. E per di più non ho tempo per i blog. Ma c’è una storia di due giornali vigliacchi che spiega per quale ragione un numero sempre crescente di persone si affidano a Google piuttosto che sfogliare le pagine dei giornali.
Il primo è il Los Angeles Times. L’anno scorso al giornalista Mark Arax è stato affidato il compito di scrivere un articolo sul genocidio, avvenuto nel 1915, di un milione e mezzo di armeni per mano delle autorità turche dell’Impero Ottomano. L’articolo di Arax affrontava tra l’altro il tema della spaccatura in seno alla locale comunità ebrea su una questione annosa: possiamo definirlo genocidio oppure no?
È una vecchia storia. I turchi insistono - contro tutti i dati di fatto e i documenti e i racconti dei testimoni oculari e contro la storia - nel sostenere che gli armeni siano stati vittime di una guerra civile. Il governo israeliano e il suo nuovo presidente e premio Nobel Shimon Peres - ansiosi di mantenere relazioni amichevoli con la Turchia moderna - hanno preferito adottare la menzognera versione di Istanbul su quella tragica vicenda. Tuttavia molti ebrei, sia in Israele che altrove, hanno coraggiosamente affermato e ribadito che si è trattato di un genocidio, di un genocidio che ha anticipato l’Olocausto nazista di sei milioni di ebrei.
Ma l’articolo di Arax sul genocidio è stato censurato dal direttore Douglas Frantz perché il giornalista aveva «una sua posizione sulla questione» e «un conflitto di interessi».
I lettori avranno già capito che Arax è un americano-armeno. Il suo peccato sembrerebbe consistere nel fatto che nel 2005 insieme ad altri cinque scrittori ha scritto ai redattori del Los Angeles Times per ricordare loro che stando alle regole del giornale il genocidio armeno non poteva essere chiamato «presunto genocidio». Frantz, tuttavia, ha detto che questa lettera era in realtà una «petizione» e ha apparentemente accusato Arax di inadempienza in quanto era entrato in trattative con un giornalista di Washington, anch’egli armeno.
Il servizio è stato poi assegnato al giornalista di Washington Rich Simon che si è concentrato sul tentativo della Turchia di impedire al Congresso di riconoscere il massacro armeno. Il servizio è uscito con il titolo «Lungi da una soluzione la questione del genocidio».
I dirigenti del Los Angeles Times a quel punto hanno optato per la linea del silenzio rifiutando le interviste, sebbene Frantz abbia ammesso in un blog (ovviamente) di aver «bloccato» l’articolo di Arax in quanto preoccupato del fatto che il giornalista «aveva espresso opinioni personali sulla vicenda in maniera pubblica... ». Oh, oh!
La verità può essere pericolosa per il Los Angeles Times. Ancor di più lo è - almeno così sembra - se si considera che lo stesso direttore - Frantz, chi altri? - ha lavorato in passato per il New York Times dove era solito definire il massacro armeno «presunto» genocidio. Senza considerare che Frantz è arrivato al Los Angeles Times come corrispondente da Istanbul.
Arax ha lasciato il Los Angeles Times dopo una transazione che anticipava una denuncia contro il giornale per diffamazione e discriminazione. I suoi datori di lavoro si sono prodigati in lodi per il suo operato mentre Frantz ha appena rassegnato le dimissioni per assumere l’incarico di corrispondente dal Medio Oriente per il Wall Street Journal stabilendosi - indovinate un po’ dove? - a Istanbul.
Ma ora attraversiamo il confine settentrionale degli Stati Uniti per arrivare al Toronto Globe and Mail che ha incaricato l’editorialista Jan Wong di condurre una inchiesta su un omicidio avvenuto lo scorso settembre in una università di Montreal. Wong non è una giornalista molto amata. Canadese di terza generazione, si è trasferita in Cina durante la «rivoluzione culturale» di Mao e, per dirla con le sue parole, «ho fatto la spia contro i nemici di classe e ho fatto del mio meglio per essere una brava, piccola maoista». In seguito ha scritto per il Globe una serie di articoli pubblicati con il titolo di «Lunch With» («A pranzo con», NdT) nei quali invitava a pranzo e intervistava i personaggi più svariati. «Quando si rilassano, abbassano la guardia», ha detto Jan Wong ad un giornale universitario. «È un trucco, ma è legale». Accidenti!!
Tuttavia l’articolo di Wong sulla sparatoria al Montreal Dawson College è stata una faccenda più seria. Jan Wong ha paragonato il killer ad un musulmano mezzo algerino che aveva assassinato 14 donne in un altro college di Montreal nel 1989 e ad un immigrato russo che aveva ucciso quattro colleghi universitari a Montreal nel 1992. «In tutti e tre i casi - ha scritto - l’assassino non era “pure laine”, che nel gergo di Montreal significa che non era un francofono “puro”. Altrove parlare di purezza razziale è una cosa ripugnate. Non in Quebec». Dolorosamente vero, temo. I parigini, che parlano il vero francese non userebbero mai una siffatta espressione - «pure laine», tradotto alla lettera sta per «pura lana», ma significa «autentico» - mentre la usano molti abitanti di Montreal. Jan Wong aveva tuttavia toccato un nervo scoperto nel Canada «multiculturale». Se ne è lamentato il primo ministro Stephen Harper. «Volgarmente irresponsabile», ha detto l’uomo politico che con entusiasmo ha continuato la politica consistente nell’inviare soldati canadesi nelle loro missioni suicide in Afghanistan.
Il giornale canadese francofono Le Devoir - riuscite a immaginare un giornale britannico capace di vendere una sola copia se si chiamasse «Il Dovere»? - ha pubblicato una vignetta nella quale la Wong era ritratta con occhi cinesi esageratamente a mandorla. Direi proprio non «pure laine» per Le Devoir. Le lettere giunte al giornale erano piene di insulti, alcune erano pura spazzatura.
Ma poi il Globe and Mail è corso ai ripari. Il redattore capo, Edward Greespon, ha scritto un commento codardo nel quale sosteneva che i passaggi offensivi dell’articolo di Jan Wong «avrebbero dovuto essere cancellati». «Ci rammarichiamo di aver consentito la pubblicazione di parole del genere in un articolo», ha bofonchiato. C’era stato un malfunzionamento di quello che con supremo sprezzo del ridicolo definiva «il processo editoriale di controllo della qualità».
Si dà il caso che io ne sappia qualcosa del «processo di controllo della qualità» del Globe. Tempo fa ho scoperto che il giornale aveva pubblicato un mio articolo apparso sull’Independent sul genocidio armeno. Ma i redattori avevano manomesso il testo sostituendo la parola «genocidio» con la parola «tragedia». Quanti acquistano i pezzi dall’Independent si impegnano a pubblicarli nella loro interezza e senza modificarli. Ma quando i nostri responsabili hanno contattato il Globe hanno scoperto che il giornale aveva semplicemente «rubato» l’articolo. Ovviamente il Globe ha dovuto pagare una somma a titolo di risarcimento. Ma per quanto concerne la censura della parola «genocidio», una dirigente del Globe ha spiegato all’Independent che non si poteva fare nulla in quando il direttore responsabile «aveva lasciato il Globe and Mail».
È la stessa storia, non vi pare? Il censore prende le forbici, taglia e fugge. Non c’è da meravigliarsi se stanno vincendo i blogger.
"«il processo editoriale di controllo della qualità»"
ahah, fantastico!:)
questo delizioso lapsus evoca perfettamente l'immagine di un giornalismo che è oramai una catena di montaggio industriale: un'agenzia sputa la notizie, un livello editoriale scarta quelle non publicabili (secondo criteri di qualità, ovviamente...), un altro livello spruzza su quelle residue un po' di linea editoriale (ovvero la "scienza dell'arrampicarsi sugli specchi") e poi via, impacchettate e pronte ad essere vendute.
Concordo perfettamente con Giuseppe. Tuttavia non capisco in che modo le mancanze del sistema informazione, avvalorino l'autorevolezza dei blog. L'alternativa alla censura (o come più spesso capita, alla marchetta) non è il 'libero sfogo incontrollato'. Sui blog si puà scrivere di tutto, è vero. Ma questo 'tutto' è sempre credibile?
Ho iniziato a leggere l'articolo credendo che sarebbe stata la prima volta che leggevo qualche cosa di sto tizio,in cui non se la prendeva per qualche cosa contro Israele....invece subito è arrivata la conferma che Fisk è proprio paranoico.
Qualche risposta alla "Rossa naturale"
("Sui blog si puà scrivere di tutto, è vero. Ma questo 'tutto' è sempre credibile?")
che potrebbe avere valenza generale.
1) Sui blog c'è molta più libertà che nella stampa, ma non si può scrivere tutto. L'ultimo blog chiuso per aver detto verità scomode è quello di Piero ricca, ma i precedenti sono numerosi.
2) Non è importante sapere se ciò che scrivono i blog è credibile, ma piuttosto se sia vero. La differenza mi appare esremamente significativa.
3) Il problema non è che i blog non sempre dicono la verità, ma che i media ufficiali non la dicono quasi mai.