A Ken Loach i precari vengono bene
di Alberto Crespi
Ken Loach e i co.co.co., Ken Loach e la legge Biagi, Ken Loach e il lavoro interinale… Ken Loach e il cinema, fortunatamente: It’s a Free World («È un mondo libero») è prima di tutto un bel film, di quelli che il compagno Ken riesce a fare quando è ispirato, quando le urgenze sociali e sociologiche rimangono sullo sfondo e trionfano i personaggi, i loro sogni, le loro lotte, le loro delusioni. Lo pensiamo da anni, diciamolo una volta di più: Ken Loach, apparentemente il cineasta più militante sulla piazza, è rimasto l’ultimo a fare il vero «cinema hollywoodiano», ovvero quel cinema fatto di personaggi forti, di ottimi attori, di sceneggiature di ferro e di conflitti narrati senza mediazioni intellettualistiche. Fateci caso: nei film di Ken Loach non ci si rende mai conto di quel che fa la macchina da presa, non si notano i movimenti di macchina e le «belle» inquadrature. Non perché non ci siano, ma perché Loach le nasconde sotto la forza della vecchia, benedetta trama. Sapete chi era il maestro di questo stile, l’uomo che teorizzava l’invisibilità del regista e della messinscena? Howard Hawks, il regista di Susanna e del Fiume rosso. E prima di lui Charlie Chaplin, inglese come Loach.
Poi, certo, ci sono i co.co.co. Che in Gran Bretagna hanno un nome diverso e sono quasi tutti stranieri. It’s a Free World parla di loro. Ma soprattutto parla di Angie, una ragazza poco più che trentenne (interpretata da un’esordiente stupenda, Keirston Wareing), un’inglese tosta, divorziata con figlio a carico e con genitori anziani che dopo 10 minuti di film viene licenziata. Angie lavora in un’agenzia di lavoro interinale specializzata nel reclutare lavoratori nell’Europa dell’Est: è brava, ma ha il difetto di rifiutare sempre le avances dei colleghi. Rimasta a spasso, decide di aprire - assieme all’amica Rose, un’inglese di colore con la quale convive - un’agenzia in proprio.
Gli inizi sono difficili, e un «ufficio» nel retro di un pub non è il massimo del «trendy», ma quando i datori di lavoro si vedono arrivare in fabbrica Angie a bordo della sua moto, fasciata in abiti di pelle che lasciano poco all’immaginazione, ci cascano quasi tutti e fanno affari con lei. Affari che vanno benino… ma andrebbero anche meglio se Angie e Rose rinunciassero a far tutto secondo le regole. In fondo, che male c’è a subaffittare un appartamento a lavoratori stranieri che dormono a turno? O a trovare un impiego (e un passaporto falso) anche per un clandestino? I guai cominciano quando una squadra di operai polacchi non viene pagata perché la ditta per cui lavorano fallisce, ed Angie deve trovare 40.000 sterline in contanti: altrimenti ci andrà di mezzo suo figlio, un bambino difficile che vive con i nonni e si chiede sempre che lavoro faccia sua madre…
Loach e il suo sceneggiatore Paul Laverty costruiscono il film come un duro «j’accuse» sulle condizioni di lavoro nella «libera» Inghilterra, ma non hanno paura di virare sul giallo, quando serve: e lo sanno fare, a differenza di tanti italiani che ora non abbiamo voglia di nominare. Ne esce un apologo sul capitalismo, un sistema nel quale nessuno può rimanere puro con i propri sogni; ma ne esce anche un signor film, che si segue con il fiato sospeso, facendo il tifo per Angie e arrabbiandosi con lei quando diventa una padroncina cinica e spietata. Il film uscirà in Italia distribuito dalla Bim, non perdetelo.