CAMBIATE IL COPIONE
di Sergio Romano
L'estate non ha modificato l'agenda della politica italiana e la ripresa propone al Paese lo stesso menu, composto dagli stessi interrogativi che venivano quotidianamente agitati e consumati prima delle vacanze. Può un partito organizzare manifestazioni contro la linea politica del governo a cui appartiene? Può un ministro partecipare a una dimostrazione di protesta contro decisioni prese a maggioranza dai suoi colleghi? Rientrati in città, gli italiani assistono alle stesse divisioni e agli stessi alterchi che hanno dominato la vita italiana sino alla tarda primavera.
Le due squadre in campo, a sinistra, sono come sempre quella dei riformisti e quella dei radicali o massimalisti. I primi, grazie agli interventi di Walter Veltroni, hanno cercato di precisare le loro intenzioni e i loro progetti. I secondi si sono arroccati sul programma dell'Unione, un documento di 281 pagine perché soltanto la lunghezza di un testo consente a tutti di inserirvi le clausole e i codicilli che potranno essere invocati al momento opportuno. Persino una vicenda minore (l'ordinanza del Comune di Firenze contro i lavavetri) ha permesso ai due campi di meglio definirsi e contrapporsi. Si direbbe che il problema, soprattutto per la sinistra radicale, non sia quello di governare, ma di proclamare la propria identità e affermare la propria differenza. Essere ideologicamente diversi è più importante che concorrere, in ragione della propria importanza e delle proprie idee, alla realizzazione di un programma comune. Anche se piace a coloro per cui essere guelfo o ghibellino è più importante che fare una buona riforma, credo che questo spettacolo stia ormai irritando la grande maggioranza degli italiani. Ma, allora, perché la politica continua a recitare instancabilmente, da una stagione all'altra, gli stessi prevedibili copioni?
È incoraggiata a farlo da una legge elettorale e da regole istituzionali che premiano la frammentazione: una soglia di sbarramento flessibile, concepita per regalare a tutti un premio di consolazione, generosi aiuti elettorali, sussidi alla stampa di partito, un premier debole, una democrazia consociativa, un bicameralismo perfetto. Le scissioni, in Italia, non sono un evento occasionale. Sono il prodotto naturale del sistema. Quando due o tre forze politiche cercano di semplificare, unendosi, il panorama politico nazionale, è normale che qualcuno tema di dovere rinunciare a una parte della propria influenza. Ma lascerà la casa madre e andrà a costituire il proprio partito soltanto se le regole del gioco renderanno l'operazione conveniente.
Fra le maggiori democrazie siamo quella in cui essere piccoli è una formidabile risorsa. Ne abbiamo avuto l'ultima prova negli scorsi giorni quando abbiamo notato che il maggiore avvenimento politico nazionale era la festa dell'Udeur a Telese. Un partito che può contare su un po' meno dell' 1,5%, e un leader che ha fatto della volubilità il suo asset maggiore sono stati per alcuni giorni il miele intorno a cui ronzavano tutte le api della politica nazionale. Finché le api non capiranno che cambiare la Costituzione è oggi molto più importante che vincere le elezioni, le sorti della democrazia italiana continueranno a essere nelle mani di partiti che in altre democrazie non avrebbero neppure il diritto di stare in Parlamento.
cioè la soluzione a tutti questi problemi è cambiare la Costituzione? e perché mai?