Anche gli armeni vogliono lasciarsi alle spalle il massacro dei padri
di Robert Fisk
Si discute oggi a Erevan del motivo per cui gli armeni della diaspora sembrano più interessati al genocidio dei cittadini dell’attuale Armenia. Lo stesso ministro degli Esteri dell’Armenia, Vardan Oskanian, mi ha riferito che «passano giorni, settimane, persino mesi» in cui non pensa al genocidio. Un argomento convincente che mi ha suggerito un amico armeno è che 70 anni di stalinismo e di silenzio ufficiale sovietico sul genocidio hanno cancellato la memoria storica dell’Armenia orientale, il territorio che costituisce attualmente lo stato armeno. Un altro argomento suggerisce che i sopravvissuti dell’Armenia occidentale - attualmente parte della Turchia - persero famiglie e terre e cercano ancora il riconoscimento e magari anche la restituzione, mentre gli Armeni dell’est non persero le proprie terre. Demoyan non è affatto d’accordo.
«Il problema fondamentale, a mio parere, è che nella diaspora molti non intendono riconoscere la nostra indipendenza nazionale» afferma. «Siamo circondati da due Paesi, Turchia e Azerbaijan, e dobbiamo tener conto della nostra sicurezza, ma non al punto di danneggiare la memoria. Qui dobbiamo essere accurati. Ho cambiato le cose in questo museo. C’erano cose inadeguate, i commenti su persone “spietate”, tutti i vecchi luoghi comuni sui turchi sono stati eliminati. La diaspora vuole essere custode delle nostre memorie - ma il 60 per cento dei cittadini dello stato armeno sono "rimpatriati" - armeni che vengono dalla diaspora, persone i cui nonni provenivano originalmente dall’Armenia occidentale. E ricordate che le forze turche attraversarono una parte dell’Armenia dopo il genocidio del 1915 - passarono per Erevan mentre marciavano in direzione di Baku. Secondo documenti sovietici nel 1920, 200.000 armeni morirono in questa parte dell’Armenia, 180.000 di questi tra il 1918 e il 1920».
Ci furono di fatto altre esecuzioni di massa da parte dei turchi in quello che è oggi lo stato armeno. A Ghumri - vicino al centro del devastante terremoto che precedette la liberazione finale dall’Unione Sovietica - c’è un luogo noto come la Gola del massacro, dove nel 1918 venne sterminato un intero villaggio.
Ma mentre mi trovavo al museo di Erevan ho avvertito la presenza di problemi politici, problemi internazionali oltre che interni. Anche se molti armeni riconoscono che i loro concittadini commisero individualmente delle atrocità per vendicarsi - ad esempio nei pressi di Van - quando ebbe luogo il genocidio, un fardello di responsabilità più recente grava sulle spalle di chi combatté per l’Armenia contro gli azeri nel Nagorno-Karabakh, all’inizio degli anni Novanta. Questa regione montagnosa a est dello stato armeno fu testimone di combattimenti feroci e a volte crudeli in cui gli armeni massacrarono gli abitanti dei villaggi turchi-azeri.
Eppure quando arrivo all’enorme monumento commemorativo del genocidio, accanto al museo, trovo le tombe di cinque «eroi» del conflitto nel Karabakh. Qui riposa, ad esempio, Musher «Vosht» Mikhoyan, ucciso nel 1991, e ci sono le spoglie di Samuel «Samo» Kevorkian, morto in azione nel 1992. Per quando onesti siano stati questi combattenti, è giusto che le persone coinvolte nell’orrenda guerra del Kharabakh siano associati con l’integrità e la verità del 1915? Non umiliano forse la storia della grande sofferenza dell’Armenia? O forse - come sospetto - l’intenzione era quella di suggerire che la guerra del Karabakh, vinta dall’Armenia, fu una vendetta per il genocidio del 1915? È come se gli israeliani collocassero le tombe dei combattenti di Irgun del 1948 - che si macchiarono dei massacri dei palestinesi a Deir Yassin e in altri villaggi arabi - fuori dallo Yad Vashem, il museo che ricorda l’Olocausto ebraico nei pressi di Gerusalemme.
Alcuni funzionari mi spiegano più tardi che queste tombe del Kharabakh furono realizzate in un momento di grande emotività dopo la guerra e che oggi - anche se sono fuori luogo - è difficile chiedere alle famiglie di «Vosht» e «Samo» e degli altri di spostarle in un luogo più adeguato. È difficile disseppellire i morti, una volta sepolti. Allo stesso modo, tra le lapidi commemorative lasciate in un piccolo parco da politici e statisti, si trova una chiara differenza di tono. I leader arabi hanno collocato targhe in memoria del «genocidio». Parlamentari americani meno coraggiosi - che non intendono offendere l’alleato turco - hanno lasciato targhe in cui si afferma semplicemente di aver «piantato questo albero». Lo stesso primo ministro libanese filoamericano, Rafiq Hariri, lasciò il suo tributo meno di un anno prima di essere assassinato nel 2005. «Albero della pace» dice. Un messaggio evidentemente inadeguato.
Ma in ogni caso è il lavoro degli archivisti che continuerà a stabilire la verità. A Erevan è ora possibile acquistare eccellenti testimonianze del genocidio da occidentali che furono presenti durante l’Olocausto armeno. Una di queste è di Tracy Atkinson, una missionaria americana che assistette alla deportazione dei suoi amici armeni dalla città di Kharput. Il 16 luglio 1915, scrisse nel suo diario segreto che «un ragazzo è giunto a Mezreh in uno stato di gran nervosismo. Da quello che capisco si trovava con una folla di donne e bambini di qualche villaggio... che si erano uniti ai nostri prigionieri partiti il 23 giugno... Il ragazzo dice che nella gola che si affaccia sul lato di Bakir Maden donne e uomini sono stati tutti passati per le armi e ai capi è stata poi tagliata la testa... Lui è fuggito... ed è arrivato qui. Sua madre è stata derubata, denudata e poi uccisa... Dice che l’odore nella valle è così terribile che adesso si riesce a malapena a passare».
Per paura che le autorità turche scoprissero i suoi diari, Atkinson a volte omise degli eventi. Nel 1924, quando il suo diario, chiuso in un baule sigillato, fece finalmente ritorno negli Stati Uniti, scrisse di un’escursione a Kharput dei suoi compagni missionari. «Non ho il coraggio di scrivere la storia di questo viaggio», annotò a margine. «Videro circa 10.000 cadaveri».