Il formaggio senza frontiere
Sembra una storia di sapori, invece è soprattutto una storia di persone. E dei loro gesti, del loro lavoro, dei luoghi nei quali questi gesti prendono forma. Forma è la parola chiave: perché si tratta di formaggio, ma anche perché qui la forma è sostanza, la forma è contenuto, stile, storia e geografia. Nel piccolo paese del Piemonte col nome cortissimo, due consonanti e appena una vocale, Bra, diventato però capitale mondiale del gusto, da ieri a dopodomani - con Cheese, sesta edizione, decimo anno nel segno di Slow Food - è tutto un delirio di creme e croste, verdi venature e nobili profumi che qualche barbaro chiama puzze. Ma stavolta la forma è davvero un mondo, rotondo come un parmigiano o una robiola però rotolato da molto più lontano per spingere intere economie, villaggi sperduti o nazioni, borgate e continenti.
Il giro del mondo in duecento formaggi è un viaggio da esploratori antichi, senza quasi muoversi. Si può gustare il caprino del planalto di Bolona, Capo Verde, tra i prodotti più interessanti: prima del formaggio bisogna immaginare un´area montuosa e semidesertica, praticamente disabitata, quasi senz´acqua, senza elettricità. Un pascolo poverissimo da cui si ricava un tesoro, anche con l´aiuto dell´Università di Torino che ha preparato un progetto finanziato dalla Regione Piemonte.
Oppure il formaggio di yak, sull´altopiano tibetano a 4.500 metri: ma prima bisogna indovinare le tende nomadi, le distese erbose, le aquile che disegnano cerchi in cielo, le caldaie di rame, le schiene curve degli animali. È un atlante con le pagine mescolate come i sapori. Ecco i caprini svedesi stagionati in grotta: l´animale, la razza svenks, rischia l´estinzione e proprio il formaggio lo sta salvando. Ecco il Darfiyeh del Libano, crudo e affinato nella pelle di capra. O il Geitost artigianale del fiordo norvegese di Sogne, dolce caramellato a pasta marrone. Oppure il Motal d´Armenia, anche qui siamo sui quattromila metri, conservato in barattoli di terracotta sigillati con cera d´api e capovolti nella cenere. Gesti rituali, una profonda e millenaria cultura da spalmare su una fetta di pane.
Il viaggio di Cheese si sofferma sull´Europa dell´Est. In Romania, assaggiando la Brânza de Burduf, cacio che si ottiene lavorando il kas. Oppure il Sir iz Mijeha, il "formaggio nel sacco" della Bosnia Erzegovina: viene messo a stagionare dentro un sacco di pelle di pecora per tre mesi, in forme che arrivano a pesare anche settanta chili. Oppure le altre forme, a fuso, affumicate e dure: stiamo parlando dell´Oscypek polacco, prodotto sui monti Tatra dove in sette secoli nulla è cambiato. Così com´è un pezzo di storia, più che di formaggio, il green cheese bulgaro di Tcherni Vit stagionato nel faggio: quando evapora la salamoia, si formano le prelibate muffe.
Il racconto dei formaggi lontani, talvolta assai strani, rende possibile la conoscenza. Così si scopre che in Italia il mestiere di pastore è quasi scomparso: in trent´anni sono diminuiti del novanta per cento, e della metà negli ultimi dieci, soprattutto negli alpeggi. Perché è una vita durissima che non rende niente: il rapporto 2006 dell´Osservatorio latte-Ismea indica che per produrre un litro di latte servono 53 ore di lavoro in montagna contro le 10 in pianura; e per ogni ora, in montagna si guadagnano 2,19 euro, in pianura 11,58. Però difendere certi formaggi, e valorizzarli, e sentire il peso della loro unicità significa anche aiutare gli uomini che quei formaggi hanno realizzato, ed evitare che gli uni e gli altri si estinguano.
I posti disponibili per le oltre tremila degustazioni sono stati bruciati con due settimane di anticipo, americani e australiani in testa: è gente che da lontano arriva e lontano vuol farsi portare, tra un Queijo Serpa portoghese e un Cheddar del Somerset, tra uno stravecchio d´Olanda e uno Zincarlìn della Valle di Muggio, Canton Ticino. Il mappamondo non finisce mai. Langhe e Roero, accanto a Tibet e North Carolina: infatti formaggio fa rima con viaggio. È il gusto d´incontrare qualcosa per la prima e unica volta nella vita e poi ricordarlo, e raccontarlo attraverso quella specialissima memoria dei sapori che sta dentro il corpo, in qualche prezioso angolo del cervello, catturata da chissà quali recettori, ma è anche un sentimento. Un po´ come accade con il formaggio delle viole, il misterioso Plaisentif della Val Chisone, Piemonte: si confeziona nel mese di giugno, quando le violette nei prati degli alpeggi rendono il latte profumato. Bizzarro e romantico come mangiare un fiore.
di
Maurizio Crosetti
fonte: la Repubblica