Nomadi per forza: cacciati dai campi, centinaia di rom si rifugiano tra le pieghe delle periferie Due esperienze a confronto: la piccola enclave dei Selimovic e il mega insediamento del Triboniano
Milano, gli zingari in fuga nella città nascosta
di FABRIZIO RAVELLI
I fantasmi li trovi anche di giorno, cercandoli nelle pieghe delle periferie, nelle ordinate e sorvegliate discariche dei campi organizzati o negli improvvisati accampamenti fangosi che vanno e vengono sotto la spinta della paura. Le mappe cambiano e si aggiornano, faticano a registrare questo andirivieni. Gli zingari, fantasmi che incarnano ogni brutto sogno della città spaurita, sempre più spesso si nascondono. Provano a cancellare la propria identità. Oppure si inventano micropaesi semiclandestini e lì stanno, cercando di farsi dimenticare. Come questi bosniaci khorakhané che, un po´ contro voglia e grazie alla mediazione della Comunità Sant´Egidio, aprono le porte del loro villaggio in fondo alla campagna del Vigentino. Ospitali, ma timorosi di ogni pubblicità. La cascina settecentesca che occupano, cadente e per ora risparmiata dall´espansione immobiliare della città, è di una società del gruppo Ligresti. Sono abusivi, ma tollerati.
«Siamo qui da dieci anni, paghiamo luce e acqua, e tutto quello che si deve pagare. Dicono che noi zingari siamo sporchi, ma qui stiamo nel pulito e i nostri bambini crescono bene», dice Jela Selimovic. Ha 45 anni, è la moglie del capo riconosciuto Beban. Sette figli, una nipotina che si fa ballare in grembo e accarezza con gli occhi, che sono bellissimi e celesti. Il villaggio è in pratica una grande famiglia allargata di 150 persone. Nell´aia della grande cascina si sono costruiti 16 di quelle che chiamano «baracche», ma che sono in realtà ordinati chalet di legno, in stile bosniaco-tirolese. Fregi traforati sul pluviale, spaziose verande, antenne satellitari e galli che cantano.
Il clan dei Selimovic è arrivato qui nelle campagne del Vigentino sull´onda di una tragedia, una di quelle che si ripetono nei campi dei rom. Era il gennaio del ‘95, stavano accampati in via Corelli, fra la ferrovia e l´aeroporto di Linate, dove ora c´è il Cpt, il centro di detenzione per gli immigrati clandestini. Una roulotte prese fuoco, morirono quattro bambini, età fra i 7 mesi e i 4 anni. «Ci hanno cacciati, abbiamo cominciato a spostarci e ogni volta ci mandavano via. Avevamo i bambini all´asilo, per portarli e andarli a prendere facevamo anche 30 chilometri». La prima figlia di Jela ha oggi 25 anni, e non è mai andata a scuola: «Ma è l´unica. Tutti gli altri ci sono andati. Noi non mandiamo i figli a rubare, ma a studiare. I nostri ragazzi non hanno mai combinato casini, non sono mai finiti al Beccaria». Il carcere minorile.
Nel ribollente arcipelago della comunità zingara di Milano, ripopolato senza soste dall´immigrazione romena, questo villaggio di bosniaci è una specie di isola semi-segreta. Ma anche un esempio di come piccoli insediamenti, tollerati e integrati, possono sopravvivere senza traumi. «Ci siamo fatti tutto da soli - dice Beban Selimovic - senza bussare a nessuna porta. Ci dicono: volete fare gli zingari. No, vogliamo fare una vita come la vostra. I miei figli sono come voi gagi, sono cittadini italiani». Nella grande sala di casa sua, luminosa e pulitissima, vanno e vengono ragazzi appena svegli che hanno l´accento milanese. Ci sono soprammobili ovunque. Immagini di madonne, una statua della Vergine di Lourdes. Un berretto con la scritta "Beban-Lourdes 2006". «I nostri vecchi erano musulmani. Noi andiamo a pregare Dio in chiesa, e a dire la verità io i musulmani non li amo proprio».
Incorniciata, la foto in bianco e nero del passato. Zingari accovacciati davanti a una tenda, che lavorano pentole in rame. «Quel bambino sono io. Quello è mio padre Bajro. Lui era un giudice, un saggio che chiamavano a risolvere questioni in Svizzera, in Francia, in Germania, perché era un uomo giusto. Io sono in Italia da trent´anni: ero a Roma quando rapirono Aldo Moro». Sono quasi tutti fuggiti dalla Bosnia poco prima della guerra. Si sono salvati, ma hanno perso i loro beni. Ci tornano in vacanza, «ma i figli quando ci andiamo non aspettano che di tornare qui in Italia, a casa loro». Sono benestanti, i Selimovic e il loro clan: trafficano ferro e metalli, sgomberano cantine e fabbriche dismesse, tengono banchi di robivecchi nei mercatini. Hanno auto di lusso, magari vecchiotte: «Lo so, molti italiani pensano che rubiamo. Ma le macchine sono tutta la nostra ricchezza, e sono in regola».
Vogliono vivere per conto loro. Quando stavano per installare qui a fianco un grande campo rom, i ragazzini appesero alla recinzione cartelli che dicevano: "No al campo-viva la Lega Nord". «Fra noi ci aiutiamo, e diamo una mano anche a chi viene da fuori: ma solo per poco tempo. Perché in 25 anni fra noi non c´è mai stata una lite, ci conosciamo e siamo tutti parenti. Con gli altri, non si sa mai». Non amano gli zingari romeni: «Noi le nostre donne non le mandiamo in giro a chiedere l´elemosina». Anche se frequentano qualche romeno, per lavoro. Nella rigenerazione e commercio di bancali, per esempio. «Paghiamo le tasse», dice Jela. Mostra il suo timbro, con codice fiscale e numero di partita Iva.
Elisabetta Cimoli, della Comunità Sant´Egidio, li frequenta da anni, conosce tutti per nome, ha visto nascere e crescere i loro bambini. Risolve loro qualche problema: le visite mediche alla Asl, lo scuolabus, la raccolta rifiuti dai cassonetti che stanno fuori, le vaccinazioni: «Il lavoro di mediazione paga, per vincere l´isolamento e l´apartheid».
Il villaggio semi-segreto, abusivo ma integrato, sta sulle mappe degli insediamenti "illegali" milanesi. In pratica non dà fastidio a nessuno, e anche con la gente dei quartieri vicini non ci sono problemi. I bosniaci vorrebbero che nessuno si ricordasse di loro, perché comunque il rischio di essere cacciati esiste. Curano le loro case come se dovessero restare per sempre: ci sono siepi di bellissime rose, aiuole, pozzi per l´acqua. Sembra di un altro pianeta lo squallore delle baraccopoli improvvisate, delle bidonvilles fangose e maleodoranti. Ma sembrano lontani anche i mille problemi dei grandi campi istituzionali, riconosciuti dal Comune come quello di via Triboniano, dove in tre aree vivono 600 zingari romeni più un´ottantina di bosniaci che sono qui dal 1989.
Le piccole enclaves sopravvivono seminascoste. Qui, anche se la collocazione ha i tratti della discarica umana, oltre il cimitero Maggiore, fra la ferrovia e un deposito di container, è impossibile far finta che la comunità di Triboniano non esista. Qui si gioca una partita che non ha precedenti in Italia, quella del "patto di cittadinanza e legalità" fra zingari e istituzioni. Un impegno sottoscritto da tutti i rom che vincola la permanenza al rispetto della legge, dell´igiene, dell´obbligo scolastico per i ragazzini. Pena, l´allontanamento immediato. E´ il campo di mediazione fra l´assistenza pubblica e le paure dei milanesi. Ci lavorano il Comune (soprattutto l´assessore ai servizi sociali Mariolina Moioli, bella tempra di democristiana), la prefettura, la questura, e la Casa della Carità di don Virginio Colmegna.
Se i bosniaci del Vigentino cercano il silenzio e l´isolamento, i rom romeni come quelli del Triboniano devono nascondere la loro identità zingara per potersi integrare. «Sono persone che devono diventare fantasmi - si arrabbia don Colmegna - Non sono riconosciuti come potenziali abitanti, ma devono scomparire per magari ricomparire sotto un´altra veste». Dice che i milanesi gli chiedono sempre: dove sono quelli di Opera? I rom cacciati dalla gente di Opera, che con un vero pogrom diede fuoco alle tende che li doveva ospitare. «Li abbiamo resi invisibili», dice. Racconta che uno di loro ha trovato casa e lavoro, e un vicino con cui ha fatto amicizia gli ha lasciato le chiavi andando in ferie: «Perché sai, in giro ci sono tanti zingari... ». Al lavoro e al padrone di casa si presentano solo come romeni: «Invisibili. Ci sono bambini che a scuola non possono fare vedere i propri genitori».
Al Triboniano, così come in altri insediamenti, la linea di don Colmegna è questa: «Abbassare l´intolleranza con i fatti concreti, perché questo permette di confrontarsi e anche scontrarsi con durezza. Lo ripeto sempre: il primo a diventare diffidente coi rom è chi ci sta in mezzo. Io non li mitizzo, anzi litigo con chi per ideologia li vede solo come vittime». Per Don Colmegna, i rom sono ormai un lavoro a tempo pieno. Conosce tutti. Ha fatto un digiuno di protesta dopo lo sgombero del campo di via San Dionigi, poi ha ospitato gli sgomberati alla sua Casa della Carità, poi si è inventato per loro una specie di tour: ogni notte ospiti in un luogo diverso, per lo più parrocchie ma non solo. «Un gesto provocatorio e simbolico. Siamo costretti a diventare nomadi. Bisogna conoscere, non creare esclusione». Adesso è in Romania, in torpedone: ci va spesso per creare condizioni che permettano agli zingari di restare in patria.
Sì, per chi ci sta in mezzo alla faccenda, le grane sono pane quotidiano. Al Triboniano, sul viale davanti al campo, da un po´ di tempo è nata una bisca a cielo aperto, che richiama grande pubblico. Oppure: le roulottes (rottami del terremoto irpino) sono infestate da insetti e topi. Però c´è anche altro. I ragazzini vanno a scuola, giocano a calcio nel campetto di quartiere. Tutte le famiglie pagano la luce. Molti hanno un lavoro, o frequentano corsi professionali. Sabato scorso hanno eletto dei loro rappresentanti, esperimento del tutto inedito. Tre per ognuna delle 3 aree. Andranno ai «tavoli» di confronto con le istituzioni. E anche questo è un modo per non essere più invisibili.
consiglio di andare a vedere il blog di grillo che riserva una chicca su rom e immigrazione talente profonda, argomentata e interessante da essere degna di un pastore bergamasco ottantenne XD
Mi sono letto tutto il post di grillo sul suo blog, compresa la lettera di quel suo lettore.
Trovo il tutto, non so se è la parola giusta,spaventoso. Spaventoso il processo di semplificazione della realtà (i rumeni assassini li ha portati qui Prodi) e di come possa fare presa molta parte dell'opinione pubblica; spaventosa la rapidità con cui grillo, sempre rivolgendosi alla "pancia" della "gente", inizia ad usare toni da ventennio magari non lui direttamente ma attraverso la lettera che ha pubblicato (o perlomeno sembra volutamente ambiguo, non chiaro il motivo della pubblicazione di quella lettera: vuole dimostrare l'esasperazione della "gente" o vuole manifestare empatia?); spaventoso il fatto che questo sentimento è seriamente diffuso tra la "gente" e pure con una certa ragione (avete letto di quel latitante albanese che a settembre, per sfuggire alla polizia, non ha esitato, nel centro di Binasco, a puntare il coltello alla gola di un bambino di 8 anni? E se succedesse a mia figlia, che farei? come la penserei); spaventosa la ricerca "da sinistra" di una soluzione "di sinistra" che riesca a coniugare legalità e solidarietà, rispetto della legge e inclusione. Cosa ne pensate? Cosa ne pensi Biraghi? Mi riconosco sempre di più in una vecchia vignetta di Altan...
(poi sto zitto) E' sempre più difficile ribattere a chi grida di sbattere fuori gli immigrati quando poi la magistratura concede gli arresti domiciliari uno di questi che ubriaco alla guida ha falciato, seccandoli, una mezza dozzina di ragazzini! Aiutatemi!!!!
C'era una volta:
http://www.beppegrillo.it/2005/11/la_guerra_ai_po.html
dario: ribattere è facilissimo. Di tutti i disastri causati dalle scatole di latta che bruciano fonti energetiche non rinnovabili, la maggior parte è provocata da milanesi, romani, napoletani, bolognesi, eccetera. Bastava scrivere "guidatore ubriaco" ecc ecc. Il fatto che l'assassino fosse un Rom disoccupato è casuale. Quasi ogni giorno i bambini di Milano che attraversano via Lorenteggio per andare all'elementare di via Zuara rischiano di essere uccisi a manciate da ragionieri di Corsico. L'altro giorno una signora bene ha ucciso un ciclista. Scrivessero "vaiassa leopardata" allora si accetterebbe di buon grado la discriminazione sui rom.