Contro la fuga di cervelli, fatti, non i soliti piagnistei
Il Nobel al professor Mario Capecchi ripropone la questione del carattere nazionale italiano, ovvero la trama consueta di un film già visto. Da una parte il rammarico per l’ennesima occasione mancata, a questo punto vissuta fatalisticamente come un destino già scritto, comunque immodificabile, dall’altra la riscoperta nazionalistica di un Paese che sarebbe ingrato con i propri figli, accompagnato dall’auspicio che il premiato di turno non si dimentichi di noi (una roba come accade con i vecchi di famiglia da parte dei giovani di successo). Ma davvero la vicenda è tutta qui?
Si potrebbe osservare come nella vicenda biografica e curriculare del Professor Capecchi l’Italia non ne esca con l’immagine di un paese generoso. Al pettine vengono tutti i nodi imbarazzanti della storia del Novecento: la diffidenza per gli stranieri; l’accoglimento precario nella famiglia adottiva; una struttura di ospitalità per infanzia abbandonata o sola con molti lati oscuri. In pochi tratti la memoria della miseria del Paese così come era uscito dal secondo conflitto mondiale.
Non diversa la questione del lamento per la fuga dei cervelli, un tema ricorrente nel piagnisteo pubblico che si ripete dal almeno cinquanta anni, ma che ancora continua a ritenere che si possa avviare una politica in controtendenza, ovvero inaugurare una stagione dove quel fenomeno sia contenibile o, almeno, arginabile. Infatti a che cosa allude quel lamento? Nella migliore delle ipotesi a ricordare come una condizione oggettiva sia rimediabile solo provando a intervenire in controtendenza e dunque a sollecitare maggiori investimenti in quei settori che risultano abbandonati o scarsamente supportati. Nella peggiore delle ipotesi, invece, questa reiterazione del lamento è funzionale alla ripresentazione di una vecchia immagine del Paese: quella di una realtà che deve far fronte con le scarse forze che ha all’assalto delle potenze straniere che con la forza del denaro comprano “i migliori”. Un sottofondo nazionalista, “incarognito”, poco propenso a fare i conti davvero con i ritardi del Paese e che soprattutto assume questa retorica per non farli davvero.
Una riflessione matura ed equilibrata della nostra condizione, infatti, richiederebbe di abbandonare dei velleitarismi nazionalistici o di implorare un’attenzione benevola e di assumere, invece, una diversa impostazione fondata su un doppio registro. Da una parte la consapevolezza che nell’epoca della globalizzazione si sta nel mondo non solo e forse nemmeno prevalentemente se si coltiva il proprio giardino ma se si consente ai risultati della ricerca di girare e, soprattutto, di mettere in condizione coloro che ancora nel nostro Paese lavorano in alcuni settori di usufruire di opportunità per non decidere seccamente di abbandonare il proprio lavoro perché sprovvisti di strutture, di supporti e anche di occasioni, oppure di andarsene. Dall’altra se finalmente si decide a riprendere un serio impegno anche finanziario nei confronti della ricerca sperimentale, anche in quei settori che pure sono stati investiti da una campagna di opinione conflittuale che ha diviso l’opinione pubblica.
Mauro Capicchi non solo in Italia non avrebbe trovato gli spazi per intraprendere e proseguire il suo progetto di ricerca - del resto come molti prima di lui (Carlo Rubbia, Rita Levi Montalcini, Renato Dulbecco), ma anche nel suo settore specifico - la ricerca intorno alle staminali - nell’Italia di oggi avrebbe girato a vuoto.
Tutto questo al netto di una riflessione, obbligatoria, in merito al ritardo cronico del nostro sistema scolastico, e più in generale educativo, intorno alle scienze e al sapere scientifico. Ma questo, molti diranno, è il “solito problema”. Vero. Purtroppo è anche l’origine del problema. Ripeterlo non è inutile.
di
David Bidussa
fonte: Il Secolo XIX
11.10.07 10:00 - sezione
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