L'odore della Vergogna
di Marco Imarisio
Occhio, che pende». Dal balcone, Sara scandisce il monito al viandante che sta entrando nel portone di casa. La voce è piatta, né rassegnata né furiosa. Semplicemente, pende. È un dato oggettivo, visibile all'occhio. La pioggia caduta nella notte ha scavato nel cumulo di rifiuti sul marciapiede, alto due metri e mezzo, e ha provocato smottamenti, piccoli crolli. Adesso la vetta è davvero in bilico. Un gigantesco sacco bianco che contiene altri sacchetti pieni di liquami, croste di vecchie pizze, verdure rese ancora più putride da una notte bagnata, si è sventrato, e a ogni refolo di vento sgocciola il suo contenuto sulle persone che varcano l'ingresso. «Fate in fretta, che crolla» dice Sara, tenendo la bocca premuta da una grossa sciarpa.
La programmatrice di computer Sara Iovine c'è abituata, abita da sempre al primo piano di un vecchio palazzo di via Mercalli, in una zona della periferia Ovest di Napoli, tra la fine del quartiere Barra e l'inizio di San Giorgio a Cremano, uno degli avamposti di questo nuovo disastro sanitario, di immagine, morale.
Suo marito Vincenzo, un geometra dagli zigomi forti e dalle parole nette, dice che lo scorso agosto era peggio, perché ovviamente faceva caldo, niente in confronto al luglio 2003, l'anno della grande calura. Qui, lontano dalle vie del centro, quelle che noi chiamiamo «emergenze rifiuti» le classificano per annate, per stagioni, come fossero vini. Dice Vincenzo che il peggio sta nel senso di ingiustizia, che macera come i rifiuti, l'olezzo che ti rimane addosso è una punizione esagerata ed immeritata. Sua moglie si china verso la lavatrice, estrae un bel maglione blu a trecce e lo tiene con due dita, con il braccio teso. Il suo regalo di Natale a Vincenzo.
Puzza, è intriso dell'odore acre che si respira fuori. «L'ho messo questa mattina, per andare a comprare le paste a San Giorgio ». Mezz'ora all'aria aperta, con lo scirocco che soffia appena, e si rientra con questa sensazione appiccicosa sulla pelle, una patina vischiosa, sembra sudore quando è molto umido.
A vederla dal basso, lontano dai pareri di dotti medici e sapienti, ma semplicemente dal tinello di Sara Iovine e di quelli come lei, questa montagna di melma che incombe è soltanto inaccettabile. Il puzzo, la gola che brucia sempre e raschia, come a fumare Marlboro rosse in continuazione. La raucedine stagionale dei bambini che invece fa venire in mente brutte cose, perché fuori c'è sempre questo odore maligno, plastica fusa in corrispondenza dei roghi, un liquore insopportabilmente dolciastro in prossimità dei cumuli. E poi, gli stivali di cinque taglie più grandi da mettere sulle scarpe per galleggiare sui sacchetti senza sporcarsi. E le finestre sigillate. E il riscaldamento spento, perché il caldo fa sentire di più la puzza. Tutto concorre a togliere dignità. Non è vita, quella all'ombra dei rifiuti. È una sopravvivenza astiosa, che genera rabbia. Perché si accetta qualunque cosa, ma non l'immondizia. Chi abita queste periferie è figlio di gente venuta dalla campagna, ha una visione antica e normale del problema, non ragiona di ecoballe o percolato. L'immondizia rimane quella roba schifosa dove si rotolano i porci e non gli esseri umani, non i loro figli.
Le strade di San Giorgio a Cremano sono deserte. Quando il vento si alza, diventa fisicamente impossibile resistere all'olezzo. La spazzatura è ovunque. Qualcuno ha bruciato un enorme cumulo in via Cappiello, proprio davanti all'Azienda sanitaria locale. Nell'incendio sono bruciate anche due auto parcheggiate poco distante. Tutta la strada è invasa da una melma rossastra colata che continua a sgorgare dai resti anneriti del rogo, sui quali già vi sono strati di nuovi sacchetti. È una spuma solida che ribolle ed emana un tanfo sintetico. Una nonna che tiene per mano un nipotino vivace si avventura ad attraversare la strada, e quasi ci pattina sopra. La signora racconta che tocca a lei, perché suo marito soffre di enfisema, e non è il caso di farlo uscire. La rivenditoria del Lotto accanto al municipio ha un cartello sulla serranda: «Se domani volete giocare, non mettete i rifiuti davanti alla porta. Collaborate!».
È curiosa la geografia di questa ennesima crisi. Le periferie Est e Ovest, i due punti cardinali più poveri dell'Atlante napoletano, entrambi ormai sul punto di tracimare riversando il liquame nel centro della città. Il cuore della rivolta è a Est, quartiere Pianura. Appena entrati dalla tangenziale, i carabinieri fermano le auto che curvano in via Vicinale Pignatello. Non è ordine pubblico, ma igiene. Servirebbe un fuoristrada, per passare sopra questa distesa di schifezza. Dal muretto sul marciapiede al centro della carreggiata saranno quattro metri. Alla fine della strada c'è uno stop, ma della scritta per terra si intravede a malapena la «S», mentre il cartello è sommerso. In cima a quella strada ci abita della gente. Una signora invita a provarci, risalire la via a piedi per vedere quanto si resiste. Camminando veloci, 4-5 minuti, poi la puzza ti prende, prima al naso poi alla pancia. I carabinieri a questo servono, a soccorrere chi ha un malore e si mette a vomitare. In fondo alla via Montagna spaccata ci sono i segni della battaglia, fioriere rotte, auto ribaltate, cartelli stradali divelti. «Datemi retta, dobbiamo soltanto combattere per il nostro onore» strilla un ragazzo che è salito sopra un cassonetto ribaltato. Sotto di lui si raduna un crocchio di anziani dall'aria rispettabile, che annuiscono. Il ragazzo è un bullo con i capelli impomatati e una claque personale. In giorni normali, non se lo filerebbe nessuno. Ma adesso, con tutto il quartiere intontito dal puzzo della spazzatura, ottiene un pericoloso credito.
Al netto delle infiltrazioni di ultrà e camorra, i miasmi del tanfo generano altre brutture. Al bar Etoile, il punto di raccolta dei rivoltosi, nessuno spende una parola di commiserazione per i poveracci che vivono sulla via Campana, la strada che collega Pianura ai comuni di Quarto e Pozzuoli. I blocchi non si limitano più a circondare la discarica. Il loro raggio è stato allargato, adesso cominciano dal centro di Quarto e Pozzuoli, nella speranza che si allarghi anche l'area della protesta. La zona proibita ora è un triangolo che ingloba la via Campana. Non entra e non esce nessuno, rifiuti, ma anche centinaia di uomini costretti a non tornare a casa. «In guerra, tutto è lecito» dice Mario Nurcaro, un signore distinto e ben vestito. «In una situazione altamente pericolosa, è giusto creare una bomba ad orologeria ». L'atteggiamento è quello di persone ferite nell'orgoglio, che vedono nello Stato un padre assente che dopo tanto tempo si presenta rivendicando un'autorità che non può più pretendere di avere. Quando è ormai buio, Sara cerca di ragionarci sopra: «È un disastro ambientale ma anche morale. Questo puzzo, ti fa sentire peggiore di quel che sei. Invita a tirare fuori la parte brutta delle persone. A vivere nel degrado, finisce che ti senti simile a quei sacchi di mondezza». Nel palazzo sta per entrare qualcuno. Il cancello d'ingresso viene chiuso con troppa forza. Dalla cima si stacca il sacco grande, che precipita sul sentiero scavato tra i rifiuti. Sara è seccata, e non lo nasconde.
«Ormai è fatta. C'è solo da aspettare una mezz'ora ». Alle sue bambine, che si erano vestite per andare a vedere la Befana in piazza, dice di spogliarsi, sarà per la prossima Epifania.
Per il perché, c'è solo da aspettare. «Ecco, ci siamo», dice Sara. Sul sentiero si sono materializzati tre giganteschi topi di fogna che si disputano gli avanzi sparsi sul selciato. È per questo che nell'androne c'è l'invito a legare «molto stretti» i sacchetti. Se esce qualcosa, c'è subito qualcuno, un ratto o un cane randagio, pronto a farsi avanti. «Inverno o estate, di notte devo sempre sprangare le finestre, perché in strada ci sono topi grandi come gatti che riescono a risalire la grondaia. E non sono come quelli di campagna, che fanno simpatia, questi ti mordono ». Attendere che si sfamino, e poi fare uscire le bambine, guardate a vista mentre si allontanano tra i rifiuti. Non dovrebbe essere Italia, questa. E comunque sia, non è giusto.