G8, la giustizia si è fermata a Genova
I fatti di Genova-Bolzaneto in occasione del G8 meritano ben più di qualche colonna su alcuni giornali, di una sia pur agghiacciante ricostruzione televisiva, di una corale, indignazione popolare e qualche sommesso balbettio politico, richiedono una dolorosa e profonda presa di coscienza collettiva ed una ferma volontà di cambiare radicalmente natura e “modus operandi” delle istituzioni statali.
All’estero si parla apertamente di rigurgito di fascismo, di complicità dei vertici, di inadeguatezza della giustizia, di atonia morale e di deresponsabilizzazione generalizzata. .Sono gentili all’estero, biasimano, ma non gridano allo scandalo, si mantengono entro i limiti della buona creanza e del buon vicinato, non scuotono il mantello, non puliscono i sandali sullo stoino del confine italiano. Dovrebbero farlo perché quanto è accaduto è indegno di una nazione civile, tanto più se membro della comunità europea. I fatti sono conosciuti in tutto il loro orrore, immortalati dalla cruda riproduzione fotografica e confermati sul piano probatorio in tribunale. Su dei giovani, magari malvestiti e forse scalmanati, si è scatenata la furia cieca e distruttiva di una banda di teppisti in divisa, preposti a tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Con il loro inqualificabile comportamento sono stati inflitti, in forme e modi diversi tutti ispirati al male, dolore e sofferenze completamente gratuite.
Poichè lo Stato democratico e di diritto non può che tendere al bene dei suoi cittadini, la prima conseguenza logico-giuridico che deve trarsi dai fatti incriminati è che quegli uomini in divisa non erano espressione dello Stato, ma semplicemente traevano occasione dalla posizione che rivestivano abusandone. Era ed è fondamentale dovere dello Stato di diritto prendere le distanze da questi indegni servitori, estirpandoli dal suo tessuto vitale, sanzionandoli sia con le pene previste per i delitti commessi sia destituendoli dal loro impiego. Non ci risulta che il ministero dell’interno abbia compilato e divulgato una lista di proscrizione,avviando e concludendo uno specifico procedimento disciplinare. Non ci risulta che la parte sana della polizia di Stato, che pure esiste ed è attiva, abbia preso una drastica posizione contro gli autori dei misfatti, sottolineando l’enorme differenza che la separa da questi ultimi, ribadendo la sua vicinanza ai cittadini onesti e la loro umana attenzione contro chi viola le leggi e va punita. Come non richiamare l’attenzione alla preghiera della polizia, recitata nelle cerimonie ufficiali: «ispiraci, o madre di Dio, misericordia verso coloro che soffrono, in modo che siano in noi conciliati il sentimento fraterno e la necessità del dovere... ispiraci sentimenti di misericordia verso coloro che soffrono...». I reati sono stati commessi nel luglio del 2001, la procura di Genova si sarà certamente resa conto della gravità dei fatti e del loro enorme impatto con l’opinione pubblica, dagli occhi ancora feriti dalle immagini viste in televisione. Il processo era indubbiamente delicato e complesso, difficile da gestire per la povera ed a volte scorretta collaborazione della polizia,ostacolato dai mille intrugli processuali del nostro faraonico codice, ma poteva comunque svolgersi in tempi molto più contenuti. Dopo quasi sette anni si è ancora alla fase dibattimentale di primo grado, a cui dovranno aggiungersi i tempi storici per gli altri due gradi successivi di giudizio; la prescrizione arriverà molto prima e nessuno dei violenti aggressori sconterà un solo giorno di pena detentiva.
Questa della lentezza della nostra cosiddetta giustizia è un cancro in fase terminale ed il Csm ha sinora brillato per proteste verbali, raccomandazioni e qualche limitato ricorso contro i magistrati più neghittosi (è di questi giorni lo scandalo di una sentenza di condanna che ha dovuto attendere anni perché venisse depositata la relativa motivazione). Non è solo su questo punto che il Csm ha dimostrato di non sapersi muovere con la concretezza e la rapidità che la giustizia richiede (sull’attuale problema della magistratura onoraria basterebbe sentire le opinioni dei presidenti delle Corti di Appello). I pubblici ministeri che si sono ultimamente occupati dei fatti di Bolzaneto hanno compiuto un lavoro molto accurato, ma non hanno potuto fare altro che applicare le leggi vigenti. Con un ritardo in perfetta armonia con la sua malacoscienza, la classe politica, nonostante le pressioni della comunità europea, non ha ancora introdotto nel nostro codice il reato di tortura che all’art. 593 bis c.p. del disegno di legge fermo al Senato recita: «il pubblico ufficiale... che infligge ad una persona... dolore o sofferenza, fisiche o mentali... è punito con la reclusione da 4 a 10 anni. La pena è aumentata se ne deriva una lesione personale, raddoppiata se ne deriva la morte». Difficile contestare che lo strappo di una mano, di un labbro, di manganellate, di minaccia di stupro alle ragazze non rientrassero a pieno titolo nelle fattispecie prevista dall’art.593 bis citato.
Non essendo, peraltro, ancora legge dello Stato, i magistrati inquirenti non hanno potuto che far ricorso alle ben più modeste figure di lesioni personali (poco più di una percossa), di abuso d’ufficio (hanno un pò ecceduto dal loro compito di individuazione dei fermati) e di altre intemperanze goliardiche. Non occorre essere degli esperti per comprendere che le gravissime violenze perpetrate dal nutrito manipolo di indegni agenti sono frutto non solo del loro istinto brutale, ma dall’implicita convinzione che in ogni caso sarebbero stati protetti dall’alto ed avrebbero ottenuto il silenzio per intimidazione dal basso. Per questo è l’intero sistema che deve essere rivisto a fondo, dal reclutamento, all’addestramento, ai controlli, alla trasparenza; il Paese ha un estremo bisogno di una polizia capace e vicina ai cittadini, democratica e fortemente motivata, istintivamente e culturalmente agli antipodi da quella ispirata al modello cileno. Il caso, comunque, non è chiuso: i giudici debbono ancora emanare la sentenza e, soprattutto, debbono motivarla con l’attenzione e l’intelligenza giuridica che il caso richiede, dedicando qualche parola alla situazione umana ed istituzionale ed alle cause che possono aver scatenato la violenza. Alle parti offese non resta che avanzare pesanti richieste risarcitorie certamente non limitate ai danni patrimoniali subiti, ma a quelli ancor più gravi di carattere morale, esistenziale e,se ne ricorrono i presupposti (riduzione della vita di relazione) biologici che lo Stato (salvo poi rivalersi nei confronti degli imputati) dovrà corrispondere (oltre all’indennizzo per ritardata conclusione del processo) Resta poi aperta la via della Corte europea, di fronte alla quale l’Italia andrà incontro alla solita pessima figura. Ci resta la speranza che di fronte ad una vergogna così grande la classe politica abbia un sussulto di dignità e riveda l’intera organizzazione e struttura della polizia, a tutela sia dei cittadini che del buon nome e reputazione di tutte le forze dell’ordine.
di
Giancarlo Ferrero