Mai più prodiani né dalemiani, né...
di Gad Lerner
Caro direttore,
il garbato sfottò dedicatomi ieri da Roberto Cotroneo ha un bel titolo: «Gad, il giornalista riluttante». Richiama un romanzo del pakistano Mohsin Hamid appena tradotto da Einaudi - «Il fondamentalista riluttante» - di straordinario valore letterario e politico. Lo raccomando di cuore ai lettori de l’Unità.
Grazie del pretesto, dunque. Solo che io non sono riluttante affatto sulla necessità di costruire al più presto un partito davvero -sottolineo il davvero- democratico. Ci sto, punto e basta. Dopo averne predicato sui giornali, in tv e nelle campagne elettorali per un decennio abbondante, troverei indecoroso sottrarmi al momento della prova. Il 14 ottobre prenderò la tessera, e sarà la prima in vita mia.
Piuttosto che riluttante, diciamo che sono spaventato come tutti. Ci siamo messi all’opera in ritardo e nelle condizioni peggiori. Il mio stato d’animo oggi è più o meno: o la va o la spacca. Una riforma in senso democratico della nostra politica oligarchica può darsi ancora, forse, ma solo se ci verrà l’aiuto di una generosa, arrabbiata spinta dall’esterno: con il referendum elettorale contro il Parlamento dei nominati; e con la partecipazione dei cittadini sostenitori dell’Ulivo alla selezione e al ricambio di una nuova classe dirigente democratica, il 14 ottobre prossimo. È un tentativo obbligatorio, dopo il «quasi scioglimento» di Ds e Margherita. Andasse male, mi ritirerò anch’io come Calabrese e Pansa. Ma fin lì sento il dovere di esserci. Noi esterni ai partiti tendiamo ad atteggiarci a vittime ma in genere quando abbiamo voce è perché siamo dei benestanti privilegiati. Dunque, meno puzza al naso e ogni tanto rimbocchiamoci le maniche.
Cosa possiamo fare? Credo che il Comitato 14 ottobre, nonostante sia frutto di designazione oligarchica, debba cercare dentro di sé il coraggio di imporre regole draconiane per una riforma del mandato politico. Mi spiace che troppe anime belle abbiano disertato l’invito a farne parte, anche se capisco il loro scetticismo. Adesso un’ironia fuori luogo colpisce i pochi senza incarichi politici come Carlo Petrini, Tullia Zevi, Marcello De Cecco. Gente che meriterebbe gratitudine e rispetto, gente che ha già rifiutato candidature parlamentari o ministeriali. Non perché siano migliori dei politici di professione, sia chiaro, ma perché felicemente impegnati in altre degne attività. Io me li immagino disinteressati e quindi tenaci nel perseguire la democraticità del passaggio in cui tutti i leader dovranno rimettersi in gioco.
Chissà, forse ci toccherà la parte dei «pierini», nel Comitato 14 ottobre. Essendo il mio impegno politico intermittente, ma tutt’altro che riluttante, racconterò a Cotroneo un aneddoto per spiegarmi. Nella primavera del 2004 fui chiamato a far parte del Comitato promotore della prima lista unitaria dell’Ulivo, per le elezioni europee. Ricordo ancora l’imbarazzo nella riunione a piazza Santi Apostoli quando proposi l’incompatibilità di una candidatura a Bruxelles per chi intendesse cumularla all’incarico di deputato o senatore. C’erano i segretari di Ds e Margherita già pronti a fare i capolista. C’erano Berlusconi e Bertinotti che fregandosene si candidavano dappertutto. Temo che ancor oggi qualcuno me ne voglia per quell’alzata di ingegno (magari con i big avremmo preso un punto in più...). Ma in nessun altro paese d’Europa le regole della politica accettano l’indecenza del cumulo d’incarichi. Se non cominciamo ad applicare la regola al nostro interno, con che faccia ci rivolgiamo al popolo?
Lo stesso deve valere sul 50% di presenze femminili nelle liste per l’assemblea costituente. L’attuale nomenklatura è vincolata da rispettabili compatibilità d’apparato che le hanno impedito - nonostante gli sforzi - di andare oltre quota 30% nel Comitato 14 ottobre. Varata una regola inderogabile, vedrete che ci si adeguerà.
Insomma, spero che serviremo a qualcosa, noi «pierini».
Infine c’è la faccenda del «Gad prodiano». Per me è la più delicata. Infedele è una cosa. Sleale o traditore, tanto più nei momenti di difficoltà, un’altra.
Il Corriere della Sera mi ha fatto il dispetto di titolare con quell’annuncio: «Lerner: non sono più prodiano». Traditore, dunque, molto peggio che riluttante. Per fortuna Romano Prodi mi conosce bene. Siamo amici, c’è affetto. Se mi ha messo nel Comitato 14 ottobre dopo aver letto non ieri, ma nel 2005, quel che pensavo sui limiti politici della sua leadership, peraltro imprescindibile (vedi Tu sei un bastardo, Feltrinelli da pag. 101 a pag. 125) vuol dire che non va in cerca di camerieri. Senza Romano Prodi non ci sarebbe l’Ulivo e non avremmo vinto le elezioni del 2006. Ma la legge porcellum e una serie di nostri errori politici ne hanno incrinato il disegno strategico. Per fortuna, anche grazie a lui, siamo riusciti a convogliare in dirittura d’arrivo il Partito democratico.
Ma il nascente Pd è costretto a muovere i suoi primi passi in un equilibrio difficilissimo: la priorità assoluta di una riforma della politica - referendum e 14 ottobre - lo mette in rotta di collisione con gli alleati di governo. Pensate al potere di veto esercitato sul governo da un leader come Mastella. Dispone di 534 mila voti alla Camera su circa 49 milioni di elettori italiani, cioè poco più dell’1%. Peggio delle scatole cinesi della finanza italiana. E fa specie notare i suoi legami, le sue relazioni. Non è un mistero: suo sponsor principale è un imprenditore dinamico e innovativo nel suo business come Diego Della Valle, azionista del salotto buono di via Solferino. Decisionisti o mastelliani, i fautori confindustriali del «governo dei migliori»? Bah.
È evidente dunque come l’iniziativa di democratizzazione della politica che ci accingiamo a tentare, comporti dei rischi anche per Romano Prodi. Per questo ho detto e confermo che entrando nel Comitato 14 ottobre sento il dovere di dimettermi da prodiano. Confidando che altrettanto facciano i dalemiani, rutelliani, fassiniani, mariniani... sono troppo ingenuo?
Gad, il giornalista riluttante
Roberto Cotroneo
In principio era il giornalista impegnato. Poi è arrivato il giornalista riluttante. Ovvero colui che spiega ai suoi elettori che è sfiduciato, lontano dalla politica, che forse non voterà più, che non gli piacciono i tempi nuovi, che mala tempora currunt. In questi giorni il giornalista riluttante è più di moda del giornalista impegnato. Non è colpa sua, l’aria in giro non è di quelle entusiasmanti, il partito democratico decolla con qualche motore che va così così, le liti sono quelle che sono, le divisioni eterne dicono che la politica non si decide a cambiare pagina, e quando lo fa, non rinuncia a tornare un po’ indietro, tanto per non perdere antichi vizi. In questi giorni i riluttanti sono stati due: Giampaolo Pansa, e Omar Calabrese. Pansa ha detto con molta onestà quello che pensa da tempo. Che questa sinistra non lo convince e che non andrà più a votare. Scrive i suoi articoli, i suoi libri, vive in campagna, e dopo tanti anni di militanza giornalistica si è rotto le scatole di tutto. Può farlo e caratterialmente ha sempre dimostrato il coraggio di dire e scrivere quello che pensa, senza temere po-lemiche. Anche Omar Calabrese, che di professione fa il semiologo e il docente universitario, ma spesso ha scritto e scrive sui giornali, è piuttosto stanco. Sul Corriere della Sera di domenica ha rilasciato un’intervista sul futuro partito democratico, e afferma che non lo attira per nulla. Calabrese vive da anni a Siena, continua a insegnare, e se ne sta per i fatti suoi. Queste due riluttanze di intellettuali legati alla sinistra dovrebbero far riflettere, e sono un campanello di allarme. Perché uno come Pansa non bisognerebbe lasciarselo proprio scappare, e un fine studioso della contemporaneità come Omar Calabrese pure. Ma c’è una terza riluttanza che lascia veramente un po’ perplessi. Si tratta di quella di Gad Lerner, è una riluttanza impegnata, è un ci sono e non ci sono. Lerner, che è il bravo giornalista che conosciamo, è stato cooptato nei 45 saggi che dovrebbero ragionare e guidare la costituente del Partito Democratico. Nominato dall’alto, come tutti gli altri 44 saggi oltre a lui. Lerner rilascia ieri un’intervista al Corriere della Sera, dove dice che questo organismo è una cooptazione dall’alto, «che scatena inimicizia», che speriamo sia l’ultima volta. Poi aggiunge: «io sono inadatto alla politica professionale. Non è il mio lavoro e non lo farò in futuro». Se gli si dice che è un prodiano storico, risponde: «Io ho il dovere di dimettermi da qualsiasi denominazione frazionistica. Prima ci chiamavano ulivisti, poi siamo diventati prodiani e dopo ancora parisiani, aiuto! È la po-litica italiana che ci spezzetta, io non sono più prodiano». E non solo: è convinto che «una parte decisiva del disegno politico di Prodi è fallita». E che Prodi per «costruire la coalizione ha dovuto soggiacere a una logica che ha portato a una ulteriore degenerazione della politica». Infine fa una promessa: «Quando si deciderà con regola scritta che le donne siano il 50% cederò il mio posto, il comitato dura tre mesi e non sarà il gruppo dirigente».
Tutto questo è molto interessante e piuttosto condivisibile. Lerner vede con chiarezza i rischi di una crisi della politica, un verticismo che sembra sopravvivere oltre ogni buon senso, e capisce che non possono essere più i tempi per queste cose. Ma, come si diceva ironicamente un tempo, sorge spontanea una domanda. Che ci fa Lerner tra i 45 saggi? Si è informato se è stato Prodi a volerlo, o qualcun altro? Perché sarebbe interessante saperlo, visto che non crede a tutte queste cose, che la politica non sarà mai il suo mestiere, peggio, che è inadatto alla politica, che Prodi ha fallito, e che questa cosa del comitato dura tre mesi e non sarà mai gruppo dirigente. Alla fine dell’intervista mi aspettavo un’ultima risposta che avrebbe concluso degnamente il ragionamento: proprio per questi motivi ho ringraziato Prodi, o forse Parisi, o forse Fassino, e preferisco continuare a fare il mio mestiere, che so fare bene e onestamente, e se hanno bisogno di qualche consiglio non mancheranno il modo e i mezzi per darglielo. Invece la riluttanza di Lerner è parziale, una riluttanza a intermittenza, genere Nanni Moretti: mi notano di più se sto tra i saggi e dico che non c’entro niente, o se sto fuori dai saggi e dico che invece sarebbe importante esserci?
Nel dubbio rimane tra i saggi, rilascia l’intervista e sposa l’ipotesi che potremo denominare da «mission impossible». Perché c’è una eventualità per cui Lerner potrebbe lasciare quel posto a favore di qualcun altro. Vuole una regola scritta, magari con avallo notarile, dove per decreto (anche questa volta, ma è la storia d’Italia, anche lo Statuto Albertino, padre della nostra Costituzione, era octroyée), dall’alto, illuminatamente, qualcuno sancisca che ben la metà, il 50 per cento, dei «seggi dei saggi» deve essere attribuito a donne.
Allora, di fronte a questa possibilità, ma che sia scritta, lui cederebbe subito il posto. Come i bravi ragazzi sugli autobus che si alzano e fanno sedere le signore. E poi dicono che in politica non c’è galanteria...
"Ma in nessun altro paese d’Europa le regole della politica accettano l’indecenza del cumulo d’incarichi"
l'eroico lerner sempre pronto ad essere riluttante nell'accettare incarichi, come quando fu assunto alla stampa doèpo aver fatto un libriccino antioperaista sulla fiat, fa affermazioni prive di fondamento. in francia notoriamente si può essere sindaci e presidenti di regioni e parlamentari, in metà dei paesi europei l'incompatibilità con il parlamento europeo non esiste, semplicemente siccome non conta un cazzo ed è pagato poco ci vanno quelli di serie b. prima di pontificare pregasi studiare
"L’attuale nomenklatura è vincolata da rispettabili compatibilità d’apparato che le hanno impedito - nonostante gli sforzi - di andare oltre quota 30% nel Comitato 14 ottobre. Varata una regola inderogabile, vedrete che ci si adeguerà."
Lerner.
Lerner rispetta le donne solo perchè sono per legge uguali agli uomini? Bhà!
Gli ricordo che AN ha fatto quanto doveva senza bisogno di una "regola inderogabile".