La sinistra c’è se guarda avanti
di Roberto Gualtieri
Nel suo articolo di lunedì Bruno Gravagnuolo pone un problema molto serio ma lo affronta in termini che non mi persuadono. È indubbio che la crisi della figura tradizionale della sinistra possa determinare una sensazione di smarrimento, e che essa si manifesta anche sotto forma di un certo grado di subalternità culturale nei confronti di alcune idee forti del pensiero conservatore.
E tuttavia, appare riduttivo ricondurre questo processo ad un «rovesciamento di valori profondo» che avrebbe «alterato profilo e vocazione» della sinistra.
Come se il suo problema fosse quello, tutto soggettivo, dell’abbandono o del «tradimento» di determinati principi capaci di per se di assicurarne l’identità e il ruolo. La sinistra non è un «campo attivo di valori», né una mera rappresentanza di interessi.
È un’unità di pensiero e azione politica che si definisce in rapporto alle concrete condizioni di un’epoca storica determinata. Nella stagione dell’industralismo meccanico e dello stato-nazione europeo, la sinistra si è costituita come movimento operaio sul piano della consistenza sociale, e come movimento socialista sul piano della soggettività politica. E quella soggettività le ha consentito di contribuire all’emancipazione politica e culturale del mondo del lavoro e successivamente, attraverso l’assunzione di un ruolo riformista fondato sulla capacità di conciliare la «classe» e la «nazione», di concorrere al grande compromesso economico, sociale e politico del dopoguerra (economia mista, welfare state ecc.). Una funzione che la sinistra poté assolvere non solo in virtù dei caratteri della propria soggettività politica (ed anzi essa non ebbe mai la piena consapevolezza del suo effettivo ruolo), ma anche grazie all’esistenza di condizioni propizie - tra cui l’ordine bipolare e l’egemonia cooperativa statunitense - che resero possibile quel compromesso democratico.
A partire dagli anni settanta quelle condizioni sono venute meno. La fine dell’egemonia cooperativa statunitense, l’avvio di un nuovo ciclo di innovazione tecnologica, i processi di globalizzazione, hanno progressivamente minato entrambi gli elementi del binomio (la classe e la nazione) su cui si erano fondati ruolo e identità della sinistra in Europa. È venuta meno la classe, perché il capitalismo non ha mutato la sua natura fondamentale (ed anzi somiglia sempre più a quella poderosa e complessa forza creatrice di sviluppo, di progresso e di contraddizioni analizzata da Marx e banalizzata dai «marxisti»), ma esso oggi realizza l’estrazione del plusvalore in gran parte al di fuori del nostro continente: nelle gigantesche fucine in cui il lavoro operoso di masse sterminate di uomini crea la ricchezza del pianeta. E lo stato-nazione vede sempre più ridursi le sue capacità di governo dell’economia, e di conseguenza il rilievo e la credibilità delle proprie istituzioni politiche e del proprio sistema democratico.
Ciò ha aperto la strada ad una crisi della sinistra e ad un’egemonia culturale del pensiero conservatore, che non data da oggi e non è una prerogativa del nostro paese. Certo, il crollo dei vecchi partiti e la fragilità del sistema politico che ha preso forma all’inizio degli anni novanta ha reso in Italia questa egemonia particolarmente forte, e a tratti perfino grottesca. In nessun altro paese europeo come in Italia alcuni dei capisaldi del pensiero conservatore sono divenuti dei veri e propri assiomi: basti pensare al pregiudizio negativo verso il concetto stesso di politica industriale, all’idea bizzarra secondo cui la politica non si dovrebbe occupare dell’economia ma limitarsi a «dettare le regole», al mito del «piccolo e bello», all’espunzione dal discorso pubblico della questione meridionale, a un’idea dell’Italia come parco turistico, alla trasformazione della cultura in intrattenimento, alla demonizzazione della «prima repubblica» e dei suoi partiti, alla personalizzazione della politica.
Tutto ciò ha contribuito a protrarre l’incompiutezza della transizione e ad accentuare il declino del paese, allargando il divario con le altre nazioni europee. Come ha ricordato Marcello De Cecco, in questi anni in Germania un sistema politico fondato su grandi e solidi partiti e nutrito da un robusto collateralismo con sindacati, cooperative e banche, ha guidato uno straordinario processo di ammodernamento del paese e del suo sistema produttivo che ha coinvolto l’intera classe dirigente (ed ha potuto appoggiarsi su un saldo e condiviso indirizzo di politica estera e di governo della politica monetaria europea e del processo di allargamento). Da noi invece i problemi, strettamente connessi tra loro, del riassetto del sistema bancario, del destino e delle strategie delle grandi imprese pubbliche e private, della collocazione internazionale dell’economia italiana, hanno alimentato una guerra civile strisciante ed opaca combattuta dietro la cortina fumogena della più trita ideologia liberista. E così ad essere in discussione non è la svendita di gioielli del nostro apparato industriale come Fiat Ferroviaria, Fiat Avio, Pirelli Cavi (recentemente ricordata da Giuseppe Rao), ma il «caso Rovati» e la «pretesa» del governo italiano di tutelare l’italianità della nostra rete telefonica. E a fare scandalo è il sostegno politico (del tutto lecito) che l’iniziativa di Unipol e del mondo cooperativo ha riscosso in una parte della sinistra, e non il "concerto" tra stampa, magistratura e autorità di controllo che ha impedito senza alcuna legittima motivazione un’operazione trasparente (oltre che utile al paese) e già premiata dal mercato. Perché era meglio una Bnl in mani straniere piuttosto che modificare in modo imprevisto gli equilibri ristretti del "salotto buono" del capitalismo italiano.
Sarebbe però illusorio pensare di rispondere a questa egemonia culturale opponendo ad essa le certezze del passato e riproponendo ricette di un’epoca ormai chiusa. La sinistra è chiamata a ridefinirsi profondamente, e in Italia come in Europa questo significa essenzialmente due cose. In primo luogo prendere atto che il suo insediamento tradizionale e la sua eredità non sono più autosufficienti: socialmente, culturalmente e quindi politicamente. Non solo in Italia, dove per complesse ragioni storiche ciò è particolarmente evidente, ma anche negli altri paesi, come da ultimo hanno mostrato le elezioni francesi. In secondo luogo, la sinistra deve raggiungere la piena consapevolezza che il proprio futuro è intimamente legato a quello della costruzione europea. La sconfitta della sinistra europea è maturata alla fine degli anni novanta quando, con tredici governi progressisti su quindici, è stato avviato un processo di rinazionalizzazione delle politiche che ha aperto la strada alla destra e ha posto le premesse del fallimento del trattato costituzionale. Costruire la sinistra del XXI secolo significa allora unire i riformismi intorno alla prospettiva di un’Europa protagonista del rilancio del multilateralismo, della costruzione della pace, della difesa dell’ambiente, della lotta alla povertà.
Un’Europa capace di rifondare la propria democrazia intorno al principio di sussidiarietà, ed al tempo stesso in grado di compiere scelte incisive comuni sui grandi temi della ricerca, dell’innovazione, dell’energia; di rilanciare - rinnovandolo - il proprio modello sociale e di trasformare il proprio modello di sviluppo secondo le linee tracciate a Lisbona. È una sfida ambiziosa, che richiede di misurarsi in una ricerca comune intorno alle grandi questioni del mondo contemporaneo e ai fondamenti di una nuova cultura politica capace di superare l’identificazione con lo stato e di assumere l’orizzonte dell’unità del genere umano e della democrazia post-nazionale. In Italia il terreno di questa innovazione e di questa ricerca è il Partito democratico. Perché si fonda sull’incontro tra i diversi filoni dell’europeismo italiano, e perché si propone di ricostruire le condizioni di un primato della politica democratica saldando nuovamente rappresentanza e decisione. Come ogni grande impresa presenta incognite e rischi, ha tanti nemici ed è aperta ad esiti differenti. Ma rappresenta in primo luogo una grande opportunità per superare una condizione di fragilità e di subalternità che dura ormai da troppi anni. Non sprechiamola.